Vince un premio europeo un film che si riallaccia al soggiorno torinese di Nietzsche, e nessuno se ne accorge.
I
 torinesi vengono sempre a sapere con ritardo ciò che li riguarda più 
profondamente. Una delle opere che stanno riscuotendo un maggiore 
successo di critica è costituita dal recentissimo “Il cavallo di Torino”, dell’ungherese  Bela Tarr, vincitore, l’anno scorso, del Premio FIPRESCI alle Berlinali.
Titolo singolare, che ha, come esplicito riferimento, il cavallo che Federico Nietzsche,
 al termine del suo breve, ma straordinariamente produttivo, soggiorno 
torinese, abbracciò in Piazza Carlo Alberto a Torino, davanti alla sua 
stessa abitazione, colto da un empito di pietà nel vederlo crudelmente 
fustigato dal suo padrone.
Come
 ben noto, l’abbraccio di quel cavallo è l’inizio della follia 
conclamata del filosofo, quella che rese necessario l’arrivo d’urgenza 
dell’amico dottor Overbeck, il successivo ricovero a Basilea, e, infine,
 il soggiorno, fino alla morte  presso la sorella.
Al di là del fatto cronachistico (per altro ben studiato e descritto dal compianto Anacleto Verrecchia, che ci ha lasciati proprio in questi giorni, ed è stato commemorato il 9 maggio, giornata dell’ Europa, da Bruno Quaranta ),
 a noi pare che effettivamente quella scena sottolinei icasticamente lo 
scacco del filosofo che aveva definito, proprio in quei giorni, “la 
compassione” come “il più grande pericolo per l’Uomo Superiore”. 
Infatti, la sua grandiosa ricostruzione della storia della cultura (non 
solo europea, ché, infatti, partiva dai “Sanniasin”, da Jinna e Buddha) 
era tutta incentrata sull’improvvisa “crepa” che, nell’epoca più antica,
 si apre nell’“anima aristocratica” per effetto della “compassione”, 
così iniziando una strada che, lentissimamente ma inesorabilmente, 
avrebbe portato alla “décadence”, all’estinzione dello spirito vitale.
E,
 tuttavia, proprio perché quella faglia era per lui simbolizzata (ancora
 shopenhauerianamente) dall’improvviso empito del Buddha, di compassione
 per il mondo,empito contro cui l’umanità avrebbe dovuto resistere per 
non essere a sua volta travolta, è significativo il fatto che Nietzsche, per primo,. ne sia stato travolto, perdendo, per ciò stesso, il senno.
Non è certo questa la sede per indagare quello che è stato opportunamente definito come “il mistero di Nietzsche a Torino”. Tuttavia, rileviamo ancora una volta, qualora ve ne fosse bisogno, quanto il mito di Nietzsche
 a Torino sia sentito un po’ dovunque (soprattutto in Europa), e di 
quanto esso continui ad essere culturalmente produttivo, in quanto 
suscitatore di sempre nuovi stimoli per nuova creatività.
Quello
 che invece è singolare che oggi tutti si “arrampichino sui vetri” per 
cercare di rendere Torino più creativa, e poi, quando qualcuno, come per
 esempio nel nostro caso, in un altro Paese, senza alcuno stimolo da 
parte nostra, non solo si ricorda di questo mito letterario 
particolarmente "torinese", ma, addirittura, grazie ad esso vince 
addirittura un festival internazionale del cinema, nessuno si ricorda 
neppure di dircelo. Questo vuol dire partire con il piede sbagliato 
–vale a dire selezionare arbitrariamente taluni “filoni” della nostra 
tradizione culturale, ignorandone altri-.
La
 cosa più grave è che ciò significa, innanzitutto, misconoscere le 
profonde (e, talvolta, misteriose) corrispondenze che vi sono fra i più 
diversi filoni della cultura europea che passano per Torino, come per 
esempio il darwinismo di Lombroso e il Superuomo nietzscheano, fra Nietzsche e la “pittura metafisica” di De Chirico; fra il nietzscheanesimo e la concezione volontaristica e culturalistica del marxismo, propria di Gramsci, fra il “modernismo” e l’”occidentalismo” gramsciani e il taylorismo e fordismo del Senatore Agnelli; fra il precoce progetto europeistico di quest’ultimo e di Cabiati
 e l’europeismo sui generis degli intellettuali torinesi,- per esempio 
quello, a nostro avviso colpevolmente misconosciuto, da un lato del 
comandante ed eroe partigiano Duccio Galimberti, e, dall’ altro, dello storico valdostano, anch’egli comandante partigiano,  e co-autore della Carta di Chivasso, Federico Chabod;
 come per esempio le considerazioni sugli esiti paradossali e 
distruttivi a cui la  sintesi finale di tutte queste tendenze avrebbe 
portato, secondo le profezie di Del Noce, alla liquidazione della politica dinanzi alle pretese “dei mercati”.
Venendo,
 comunque, al film, esso è caratterizzato certo da quell’eccesso di 
intellettualismo e di perfezione formale che ha sempre contraddistinto 
la filmografia est-europea e nordica, cosa che, al tempo del Socialismo 
Reale, veniva contraddistinta, in Polonia, con l’espressione “Czeski Film”
 (“un fil cecoslovacco”). In effetti, nel film (in bianco e nero) non 
succede nulla tranne la morte di un cavallo. Il cocchiere e la figlia, 
che vivono in una dača isolata, in un paesaggio che ricorda certo più la
 Puszta che non le colline torinesi, reagiscono con un tono di freddo 
sconforto. 
Quindi,
 come, e ancor peggio che, in certi film di Bergman o in “L’anno scorso a
 Marienbad”, non succede proprio nulla; solo grigie immagini di un 
grigio paesaggio, con grigi personaggi.
È già stata richiamata, a proposito di “A Torinoi Ló”, l’estetica di Lars Von Trier (che ce n’ha fornito recentemente uno splendido esempio con “Melancholia”, vincitore, anch’esso, alle Berlinali). Indubbiamente, vi è, in Tarr,
 tutto il pessimismo dell’Europa Centrale e Orientale (oltre che del 
Nord scandinavo), che, da sempre, non ha considerato la cultura come un 
ornamento mondano, bensì come una drammatica questione esistenziale: in 
questo caso, un’esasperata meditazione sul male e sulla morte.
Invece
 di agitarci per fenomeni folcloristici come la nuova Costituzione 
ungherese, perché non ci impegniamo maggiormente a conoscere la cultura 
dell’Europa Centrale e Orientale e a dialogare con essa?
 
 
 
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