mercoledì 30 novembre 2011

CAPIRE LA GERMANIA

The only Solution to Crisis: Culture
Une  seule solution à la crise: la culture
Einzige Loesung zur Krise: Kultur

Quando Nietzsche affermava che "il mondo vero è diventato favola" intendeva riferirsi ad un fenomeno generale di storia della filosofia europea.

E, tuttavia, tale frase si applica altrettanto bene alla storia della cultura in senso più ristretto, vale a dire al modo in cui la cultura moderna si rapporta alle proprie stesse basi, cioè con un atteggiamento totalmente manipolativo, che si ripercuote sulla stessa possibilità di apprendere la realtà, quindi, di prevedere e decidere.

La stratificazione delle manipolazioni storiografiche è divenuta oggi così densa, da paralizzare totalmente la capacità decisionale delle classi dirigenti, e, quindi, dell' intera società.L'esempio tipico di questa paralisi è la dfficoltà con cui si sta portando avanti la costruzione eurtopea. Ed è per questo che siamo convinti che solo una radicale opera di destrutturazione di tutte le narrazioni contemporanee costituisca il necessario presupposto per qualunque progetto sensato per l'avvenire.

A cominciare dall' Euro.

1.Le manipolazioni della storia europea.

La prima grande manipolazione fu costituita dalla costruzione dello stereotipo germanico da parte di Tacito e di Jordanes,con cui si propose  il mito di un popolo originario e puro, contrapposto alla Romanità decadente; la seconda, la narrazione biblica, che fuse in un'unica vicenda le tradizioni medio-orientali e classiche, senza però rendere conto della loro rispettiva autonomia. La terza  fu costituita dalla "vulgata" della Rivoluzione Francese, con cui si stabilirono manicheamente due campi, Rivoluzione e Controrivoluzione, che, invece, non erano affatto così  contrapposti. La quarta fu quella dell'Europa delle Nazioni, dove si perdettero di vista le reali identità e differenze, per sostituirle con nuove, fittizie ipostasi; la quarta, quella del progresso occidentale contro l'arretratezza del resto del mondo (Condorcet); la quinta, quella dello Stato Mondiale, che, per Juenger, ma anche per l'Unione Europea, sarebbe la provvidenziale sintesi finale dell'epopea produttivistica dell'Operaio e di quella borghese della Pace; l'ultima, infine, quella kojeviana della Globalizzazione come Fine della Storia.

2.I tre Paesi vincitori della crisi

Quando apriamo le pagine di un giornale, o ascoltiamo un talk show, non possiamo non rimanere esterrefatti nell'ascoltare, da pretesi esperti, cose che non hanno alcun reale riscontro. Gli esempi più evidenti sono costituiti dall' immagine che, in questi giorni, si sta dando della Germania.

Intanto, nessuno riesce a spiegare come mai, dal bailamme generale della crisi, solo tre Paesi stiano uscendo indenni: gli Stati Uniti, la Cina e la Germania.

Gli Stati Uniti sono i primi responsabili di ciò che è accaduto, per avere perseguito e realizzato l'obiettivo storico di rimodellare il mondo a loro immagine, per avere portato al parossismo le logiche del leverage finanziario, sostenendo con esse un apparato burocratico-militare unico nella storia, per essere una vera e propria fabbrica di inflazione, per avere innescato la crisi dei subprime e anche la crisi più recente, col mancato accordo sul budget fra Obama e il congresso. Eppure, alla fine, non sono stati essi a pagare il conto più salato. 

Nonostante le proposte di un nuovo Sistema Monetario Mondiale, il dollaro continua ad essere la valuta di riserva e a rivalutarsi su tutte le altre. Nonostante i tagli di bilancio, gli Stati Uniti non diminuiscono, bensì incrementano, il loro impegno militare, per esempio, in Pakistan, in Europa Orientale, in Australia e in Africa.

Nonostante i proclami liberistici, le banche e le case automobilistiche sono state salvate con enormi interventi finanziari pubblici e con il "quantitative easing". Grazie alla loro forza culturale, politica, militare, propagandistica ed economica, gli Stati Uniti fanno sempre ancora pagare i propri debiti agli altri.

La Cina ha sempre avuto, fino alla caduta dell' Impero Qing, esattamente un secolo fa, il maggiore PIL del mondo. Una volta finite l'occupazione straniera, il regime delle concessioni, la guerra civile e la Rivoluzione Culturale, era  inevitabile che essa sarebbe ritornata, come in tutta la sua storia, al vertice, anche economico, del mondo. La stessa enorme drammaticità delle esperienze attraversate (le rivolte dei Taiping e dei Boxer, le Guerre dell' Oppio, le occupazioni occidentale e giapponese, il movimento modernista, la guerra civile, le stragi maoiste) non hanno rallentato, bensì accelerato una trasformazione, innanzitutto culturale, indispensabile: dal subire passivamente l' influenza occidentale, all' imitare il Giappone, l'Occidente e l'Unione Sovietica, per poi costruire un nuovo sistema nuovamente centralizzato, e, infine, allentare progressivamente le redini del controllo.
L'enorme attivo della bilancia dei pagamenti incomincia con le politiche draconiane di Mao, che, contrariamente a quasi tutti i leader comunisti, non volle mai indebitarsi con l'estero, preferendo comprimere all' inverosimile il tenore di vita dei cittadini. La grande competitività dei prodotti cinesi comincia, nel 1978, con la decisione di svalutare lo Yuen del 30%, imponendo così di fatto un risparmio forzoso anche nella fase di apertura al commercio internazionale. La Cina continua a prosperare anche ora grazie alla sua capacità unica di realizzare in tempi brevissimi "manovre" ritenute impossibili altrove, come per esempio l'attuale incremento a tappe forzate del mercato interno.

In ambedue i casi, quello americano e quello cinese, la spiegazione della forza economica sta non già nella presunta assenza di controlli statali, bensì nerll'inesorabile connessione fra la pretesa di una missione storica, la capacità di controllo centralizzato e l'abilità nello sfruttare questo controllo per influire a proprio favore sul resto del mondo. 

Quindi, c'è una spiegazione per l' America e per la Cina. Ma, per la Germania?

Le due spiegazioni più diffuse, quella data dai Tedeschi e quella data dagli altri, non ci convimncono per il loro carattere mitologico.
Secondi i Tedeschi, la Germania sarebbe in una situazione economica migliore per il suo maggior rigore di bilancio (che, infatti, si vorrebbe imporre anche agli altri). Secondo gli altri, la Germania sarebbe più forte per avere imposto all'Unione Europea il proprio modello economico, rendendo impossibile agli altri Paesi europei di competere con la Germania attraverso le svalutazioni competitive che essi usavano in precedenza.

3.Un pò di storia

A noi pare che la ragione vera della maggior forza della Germania risieda nella sua particolare struttura sociale, molto diversa da quella degli altri Paesi d'Europa.

Ricordiamo, intanto, che la Germania è l' erede storico-culturale del Paese esaltato da Tacito, e che quella memoria ne condiziona ancora l'autopercezione. Anche il Rivoluzionario dell' Alto Reno, Muenzer e Lutero avevano attribuito alla Germania una missione salvifica. La Germania a cavallo della Rivoluzione Francese è un Paese che unisce la conservazione di strutture sociali medievali con uno sviluppo senza precedenti della cultura moderna. A cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, la Bildungsbuergertum tedesca elabora la mitica contrapposizione fra Kultur e Zivilisation, evocando l'idea di un diverso modello di società,o meglio,  una "comunità" (Gemeinschaft), non già una vera "società" (Gesellschaft).

Le due Guerre Mondiali furono combattute in gran parte cojn il mito della Gemeinschaft (Volksgemeinschaft).

Anche la "denazificazione" imposta alla Germania dalle potenze occupanti fu mediata da intellettuali che partecipavano al mito della Gemeinschaft, come il liberista austriaco Von Mises, che apirava a ricostruire, contro il costruttivismo dei comunisti e dei nazisti, la "società naturale" dell' "Austria Felix", o come i filosofi francofortesi Horkheimer e Adorno, che, sempre in nome della Kultur, volevano ricostituire la vecchia Germania della "Gemeinschaft".

Gli Alleati cercavano di impedire che il nazismo potesse rinascere: quindi, imposero il contrario di ciò che gli intellettuali tedeschi loro alleati descivevano come "tipicamente nazista": il federalismo contro lo Stato accentrato, la decartellizzazione contro i Konglomerat, la cogestione operaia contro lo strapotere dei grandi industriali, ecc...

Essi non si accorgevano, per altro, di stare ricostruendo, sotto nuove spoglie, una Germania ancor più "tradizionale" che non quella nazista. La stessa cosa avveniva, "mutatis mutandis", nella Repubblica democratica, un "Kommunistischer Beamtenstaat" molto simile allo "stato commerciale chiuso" di Fichte, con un culto della "Kultur" molto simile a quello delle monarchie ottocentesche (cfr. Thomas Mann, Bloch, Gehlen).

L'Economia Sociale di Mercato di Erhard doveva molto alla "concezione istituzionale dell' impresa e del diritto", così come la DDR doveva molto al "Socialismo della cattedra" e al "consociativismo" che Elazar considera tipico dell'eredità del Sacro Romano Impero.

Le due Germanie coltivarono così il culto goethiano della stabilità , che impedisce l'egemonia dello spirito mercantile, e permette alle anime belle di deicarsi alla natura e alla cultura.

Nell'ambito di questa concezione classicistica e conservatrice va anche situata l'idea della stabilità monetaria, esaltata, nel 2° Reich e nella Repubblica di Weimar, da conservatori come Bruening, e osteggiata dai "progressisti" (socialdemocratici e liberali) perchè avrebbe sfavorito  la mobilità sociale.

La stabilità economica si sposa infatti bene con una forte integrazione fra città e campagne, sull' esaltazione del ceto operaio come professione altamente tecnicizzata e giuridicamente protetta, con il carattere strettamente familiare e perfin clanico della piccola e media impresa, con la quadripartizione del potere, nelle grandi imprese, fra lo Stato, gli azionisti, i lavoratori e lo Stato azionista.

A ciò si aggiunga un'ulteriore nota antinazista: giacché la "vulgata" afferma che il Nazismo fu propiziato dall' inflazione della Repubblica di Weimar, si decise che il caposaldo della politica monetaria sarebbe stato costituito dalla lotta all' inflazione, garantita dal divieto alla Banca Centrale di perseguire obiettivi di crescita mediante l'emissione di carta-moneta. 

4.L'economia sociale di mercato

Tutto si lega.Il mantenimento di una societò stabile viene garantito dal freno al Governo, alle banche e alle imprese, affinche non spingano il sistema oltre i limiti del possibile. I profitti e i salari crescono modestamente e costantemente. I sindacati, potentissimi, riescono a tenere a freno il movimento operaio con il prestigio della loro presenza negli organi decisionali.

Il risparmio è incentivato da uno stile di vita ecologico, con un'urbanistica decentrata e gusti vicini al mondo contadino.

Paradossalmente, quest'economia "conservatrice" si è rivelata più efficiente delle economie degli altri Paesi europei, che si sono lasciate grtadualmente trasformare sul modello americano, con l'apertura ai capitali internazionali, la mancanza di barriere alla speculazione, l'autonomia del movimento sindacale, un'urbanizzazione selvaggia e la perdita dei valori "romantici" della natura e della cultura. Infatti, è ben vero che le economie di tipo "occidentale" riescono, in certi periodi, a conseguire una crescita spettacolare, però compensano ciò con ancor maggiori periodi di crisi e di recessione, che azzerano tutto quanto conseguito in precedenza.

E il motivo per cui la Germania è così è, da un lato, il suo mito della Kultur, e, dall' altro, il fatto che le imprese, che non hanno una proprietà speculativa, bensì una "governance" mista e profondamente radicata nel territorio,  hanno continuato per un cinquantennio a reinvestire nell' innovazione e nella qualità, in modo da risultare sempre più imbattibili.

Per quanto riguarda i Paesi europei, essi non hanno neppure i paracadute del Governo americano, i salvataggi miliardari, le commesse militari, il Quantitative Easing, l'"advocacy" sui mercati esteri, ecc.., e, quindi, quando c'è la crisi, pagano per forza duramente.

Questa situazione non è cambiata sostanzialmente, né con la riunificazione della Germania, né con la creazione dell'Euro.

L'enorme facilità con cui la Germania Orientale è riuscita ad adattarsi al sistema della Germania Occidentale si spiega con due ragioni: la forza del sistema occidentale e la relativa forza anche di quello orientale. Infatti, non è solo la Germania Orientale a realizzare ottime performances economiche, bensì anche la confinante Polonia, e anche la Russia, che a sua volta confina con la Polonia.

L'Euro non ha modificato questa situazione per la Germania, in quanto il sistema Euro non ha fatto che estendere a tutta l'Europa il sistema del Marco. Non, per altro, l'"economia sociale di mercato" alla tedesca, ché, anzi, in questi anni, tutto il resto d'Europa si è lanciata in un processo di accelerata americanizzazione, con la cessione dei "campioni nazionali", lo smantellamento della concertazione con i sindacati, le delocalizzazioni selvagge, ecc..

Tutto ciò ha indebolito, non già rafforzato, le imprese europee occidentali rispetto a quelle tedesche, che hanno mantenuto sostanzialmente la loro precedente struttura nonostante le insistenze dei "privatizzatori". Basti dire che, quando i sindacati e la Confindustria tedesca hanno concordato nuove forme di flessibilità del lavoro, il Governo Merkel ha introdotto una legislazione che rende difficili certe forme di flessibilità, considerate dannose per la salute e per la famiglia.

5.L'Europa dinanzi alla crescita dei BRICS.

Ma c'è di più. La Germania, con la sua struttura economico-sociale, ha sfruttato al massimo l'era delle delocalizzazioni, delocalizzando al massimo le attività a basso valore aggiunto, ma mantenendo in Germania le sue produzioni di valore aggiunto più elevato, per le quali non vale  la concorrenza al ribasso, ma che possono essere realizzate solo in un Paese, come la Germania, in cui tutti, a cominciare dagli operai,  hanno un livello di preparazione incommensurabilmente superiore a quelli degli altri Paesi.


Se la Germania difende, dunque, a spada tratta queste sue carattteristiche, è perchè il suo modello è vincente.
Con il conseguimento, da parte dei BRICS, della piena autonomia dall' Occidente, culturale, politica, finanziaria, tecnologica, industriale, economica, anche gli altri Paesi d'Europa, se non vogliono decadere sempre più, devono imitare il modello tedesco, investendo nelle stesse cose della Germania (cultura, ricerca scientifica, capitalizzazione dei campioni nazionali, qualificazione e retribuzione della forza-lavoro qualificata, produzioni di qualità, ambiente), evitando gli assurdi sperperi, finanziari e economici, degli ultimi anni (come tante inutili privatizzazioni, i finanziamenti a pioggia a innovazioni solo sulla carta,i salvataggi di ciò che non si può salvare, una concorrenza assurda fra Europei perfino in campo militare, ecc...).

Solo così potranno offrire ai BRICS quelle poche cose che ad essi ancora mancano ( e si presume continueranno a mancare ancora per un pò), come quelle che hanno uno stretto legame con la qualità dei Paesi produttori (come la auto di lusso e la meccanica di precisione tedeschi, la moda e i vini francesi, l'artigianato italiano).
Nel frattempo, l'Europa potrebbe avere il tempo di convertirsi ad un nuovo tipo di economia, più ambientale, cibernetica e diffusa, che sarà il tema del domani e potrebbe costituire una nuova speranza di eccellenza europea (il "sogno europeo" di Rifkin).

Certo, per far fronte all'enorme squilibrio finanziario di oggi, occorre assumere provvedimenti finanziari urgenti, primo fra cui l'attribuzione, agli organi europei, dei normali compiti di coordinamento di uno Stato Federale (sicurezza nazionale, cultura, moneta, finanza, legislazione economica, settori industriali strategici, ecc..).

Nel fare ciò, occorre comprendere tanto le ragioni della Germania, che giustamente non vuole "annacquare" un modello vittorioso, quanto degli altri Paesi d'Europa, che non possono andare avanti senza un aiuto immediato della Germania. 

Quindi, si creerà per forza un sistema intermedio, che concilierà l'attenzione tedesca per la stabilità con l'esigenza degli altri Paesi di un maggior tasso di crescita. In questo contesto, i famosi "sacrifici" rivestono un ruolo tutto sommato marginale.

Tuttavia, il problema fondamentale è che la politica economica comune non spinga la Germania ad una maggiore finanziarizzazione e precarizzazione, bensì gli altri Paesi verso una maggiore cura per la cultura, la ricerca,la qualità,  la scuola, la capitalizzazione delle imprese, la partecipazione dei lavoratori.

Solo così, al posto di un "sistema socio-economico tedesco" e un "sistema socio economico europeo-occidentale", potrà crearsi un nuovo "sistema socio-economico europeo", che, a nostro avviso, costituirebbe anche la miglior garanzia della sopravvivenza dell' Identità Europea.

Per arrivare a ciò, occorre ancora una volta molta cultura, con cui "decostruire" le assurde narrazioni ideologiche che hanno portato le nostre economie fino a questo punto. Per esempio, la teoria assurda secondo cui il sistema tedesco sarebbe stato "rigido" e non avrebbe quindi permesso lo sviluppo dell' economia; che esso avrebbe garantito solo lo sviluppo delle grandi imprese e non di quelle familiari; che l'"ingabbiamento" della conflittualità operaia in sindacati forti e nell' autogestione avrebbe indebolito la forza contrattuale degli operai, ecc...

Tutte cose che si stanno rivelando non solo false, ma, addirittura, l'esatto opposto della realtà.Speriamo che qualcuno abbia il coraggio di dirlo e di agire di conseguenza.

















martedì 29 novembre 2011

RICOMINCIARE DALLA CULTURA


A  Contribution of Italy to the Restarting of European Integration
Une contribution de l'Italie à la relance de l' intégration européenne
Ein Beitrag Europas zur Belebung der europaeischen Integration


I.     RUOLO DELLA CULTURA IN EUROPA

Il motivo per cui, in concomitanza con l’attuale crisi finanziaria, è facile il gioco della demagogia di fare della cultura un capro espiatorio,  è che, come mi insegnano la mie diverse  esperienze, di funzionario europeo, di manager di multinazionali, di editore, di promotore culturale, di scrittore, di imprenditore creativo e di consulente aziendale, tanto le produzioni culturali, quanto le politiche per l’innovazione, quanto, infine,  la comunicazione sull’ Europa, sono spesso percepite dai cittadini con fastidio, in quanto si dà per lo più per scontato ch’esse siano forzate, autoreferenziali, politicizzate, acritiche e non spontanee.

In realtà, la crisi dell’impegno nella cosa pubblica  e la perdita della capacità auratica della cultura viaggiano in parallelo, perché non vi sono più temi mobilitanti, e, a quelli che in realtà ci sarebbero (come l’Europa), la cultura e la politica non sono capaci di dare un contenuto soddisfacente, ché, anzi, si presenta, impropriamente, l’Europa non già come una miniera di stimoli ideali, bensì come un gendarme, che avrebbe come compito istituzionale quello di imporre ai cittadini i desiderata del mondo finanziario a scapito delle esigenze della natura, della cultura, dei lavoratori e delle famiglie.

La politica non interessa più perché i cittadini sentono che la loro possibilità di influenzare l’andamento della storia è limitatissima, mentre le cose che contano sono già state decise da poteri anonimi: eserciti, finanza internazionale, grandi concentrazioni mediatiche. Solo mettendo l’ Europa al centro della politica si potrebbe entrare veramente nel merito delle scelte di civiltà e di società, delle decisioni fondamentali sulla tecnica e sulla natura, sulla pace e sulla guerra, coinvolgendo, così,  anche emotivamente, i cittadini in un ruolo attivo nelle grandi scelte.

La cultura non appassiona più quando si presenta come tecnicistica, intellettualistica, non legata al vissuto dei cittadini, ed essa è così perché è standardizzata, non radicata in un concreto ambito culturale. Ambito che può essere senz’altro anche la città o la nazione, ma, in un’epoca di globalizzazione, manca di spessore se non ha una dimensione europea. Cioè se non parteggia in un modo concreto nel dibattito sull’avvenire del mondo.

Infine, il dibattito politico sulla cultura è tutto incentrato su una quota modestissima delle attività culturali, quelle visive e,  performative, ignorando più o meno i collegamenti con la scuola, l’editoria, la ricertca scientifica,i media,le professioni,l’informatica, il turismo, ecc..


Quanto sopra non è contraddetto dall’enorme sviluppo della cultura come fenomeno sociologico, che ha le sue ragion d’essere nell’accrescimento della scolarizzazione, nella mobilità sociale, nell’aumento del tempo libero. Si tratta  di una fondamentale contraddizione: mentre si produce molta più cultura, l’atteggiamento degli addetti ai lavori non è di responsabilità civile, né neppure carismatico, bensì essenzialmente funzionale e mercatistico. Ad esso, corrisponde,  da parte dei cittadini,un atteggiamento di “flaneurs” svogliati e passivi, e di domanda poco solvibile  dei prodotti culturali.

Occorre una vera e propria rivoluzione culturale, che allarghi l’idea di Europa, da quella di un progetto economico e giuridico contingente, a quella di uno spazio, naturale e storico, di ampio respiro, che possiede infinite e sconosciute risorse di cultura, di pensiero, di scienza, di tecnologia, di arte, di paesaggi, di stili di vita, di culture sociali, nel quale siamo tutti, volenti o nolenti, inseriti: uno spazio di civiltà. Al quale appartengono il Nord e il Mediterraneo, l’Atlantico e il Mar Nero, la classicità e il Cristianesimo, l’Illuminismo e il Romanticismo, Cartesio e Wittgenstein, la tecnologia e il lavoro.

Se non riesce a far percepire questo mondo europeo condiviso di cultura, non ci sarà mai una vera Europa. E, viceversa, non ci sarà mai interesse per la cultura finché non dimostreremo, attraverso un progetto concreto, che essa può ancora incidere sul mondo, attraverso uno strumento efficace: l’Europa.

E, infine, non ci sarà mai una condivisione politica dei cittadini, se non riusciremo a farli partecipare, attraverso una cultura europea e uno Stato europeo, alle grandi scelte sul futuro del mondo.

Questo è, a nostro avviso, il primo compito di una politica culturale europea, e, poiché siamo tutti in Europa, di una politica culturale tout court, oltre che della politica.

1.    Il “Governo per l’Europa”

Per questi motivi, affinché il “Governo per l’Europa” non resti uno “slogan” retorico, il Governo italiano dovrà, a nostro avviso, farsi carico, oltre che di problemi economici, anche della rivitalizzazione, all’interno e all’esterno, del mondo culturale, nella chiave europea che abbiamo sopra enunziato.

L’Italia è uno dei maggiori poli di cultura nel mondo. Un ineguagliabile patrimonio artistico e monumentale antico, medievale e moderno; una tradizione di creatori di rilevanza permanente e mondiale, da Pitagora a Virgilio, da Orazio a Dante, da Machiavelli a Gramsci, da Verdi a Puccini, ecc…; una creatività sociale e imprenditoriale inesauribile: dall’invenzione della “lex mercatoria” a quella dei grandi istituti sociali religiosi, dall’introduzione in Europa del fordismo allo Statuto dei Lavoratori; dal fama mondiale dell’artigianato all’eccellenza nel turismo culturale, emozionale  e religioso.

Non è neppure vero che l’Italia non sia più un paese colto. Certo, la cultura non è ora, e non è mai stata, da noi, un fenomeno di massa. E, tuttavia, ancor oggi vi è un diffuso interesse per tutte le manifestazioni culturali.Per questo, si può e si devono migliorare le cose che non vanno, in tutti i campi della vita culturale, con un approccio prima qualitativo che non quantitativo.

L’Unione Europea trae le sue origini storiche nella tradizione dell’Impero Romano, delle Chiese Cristiane e del Sacro Romano Impero, che, tutti, hanno avuto come centro Roma. I trattati istitutivi delle Comunità Europee sono stati firmati a Roma. Per questi motivi, non è neppure pensabile che l’Italia possa essere esclusa dal “nocciolo duro” dell’Unione Europea. Neppure si può accettare che, per contingenti questioni finanziarie, essa venga posta sul banco degli imputati. L’Italia deve dimostrare, non soltanto con adeguate manovre finanziarie, ma anche con la propria capacità di leadership in campo culturale e politico, che essa continua ad essere all’avanguardia dell’Europa.

L’Italia deve ridivenire, come nell’ Antichità, nel Medio Evo, nel Rinascimento e nel Risorgimento, il laboratorio culturale dove tutti gli Europei vorrebbero venire,  per vivere nella cultura e partecipare,attraverso  la cultura, al rinnovamento dell’ Europa.



2.    La situazione attuale

Il Governo italiano può e deve dimostrare di essere all’altezza di questo compito, facendosi promotore del rilancio del processo di integrazione europea. Ma ciò non potrà avvenire solamente , come nell’esperienza, fallimentare, della Costituzione Europea, attraverso la “messa in bella” degli stessi concetti giuridici ed economici di sempre, bensì attraverso il rilancio della creatività culturale degli Italiani e degli Europei, che ribalti l’attuale situazione di debolezza, valorizzando tutti gli aspetti “culturali” delle società italiana e europea.

L’aspetto creativo della cultura non richiede molte risorse finanziarie, bensì intellettive e morali, e, soprattutto, un clima di apertura delle porte dell’ufficialità alla cultura prodotta dai cittadini fuori dei circuiti e dei canoni ufficiali.

Siamo già un prodotto della “Società della conoscenza”, la quale ha creato, in vasti gruppi di cittadini, enormi aspettative, tuttora insoddisfatte, di partecipazione culturale attiva. Ma, contrariamente a quanto affermato nella Strategia “Europa 2020”, questo è solo il punto di partenza, non già l’obiettivo a cui tendere. A nostro avviso, in controtendenza rispetto alla “società delle aspettative decrescenti”, le società attuali vanno strutturandosi nel senso di incrementare le loro aspettative culturali. Non è neppure vero che i cittadini non vogliano un impegno culturale dello Stato, però spesso essi non capiscono il perché delle scelte che, sulla cultura, vengono fatte a livello politico. Essi vorrebbero, probabilmente, che venissero sostenute soprattutto le attività culturali veramente prioritarie, e quelle che essi “sentono” più come proprie.

Occorre inoltre chiarire che, a questa “Domanda di cultura” da parte dei cittadini non è solo un’ obsoleta aspettativa sociale, ma corrisponde soprattutto alla sopra accennata  obiettiva urgenza di poter disporre di una cultura rinnovata e condivisa  come strumento per migliorare la società.

3.         Urgenza della nuova cultura

Che la cultura rappresenti qualcosa di ben più vasto che non uno sterile e passivo passatempo  è dimostrato proprio dal dibattito, attualmente in corso, a proposito della politica culturale del Comune di Milano, in cui si è giustamente affermato che non ha più senso parlare, ad esempio, di arte contemporanea come qualcosa di isolato dalla cultura contemporanea.

Innanzitutto, la crisi in corso, mondiale prima che europea e italiana, sta dimostrando l’insufficienza delle attuali culture economiche (e, prima ancora, politiche e filosofiche) a rendere conto delle tendenze ed esigenze delle società del mondo contemporaneo. Non si può fingere che Cernobyl e Fukushima, Lehman Brothers e la crisi dell’Euro, siano solo trascurabili incidenti di percorso. La “distruzione creativa”, insita nei processi di globalizzazione, non è oggi adeguatamente bilanciata, né da un adeguato sforzo di ricostituzione del capitale sociale, né da un discorso pubblico aperto a tutti e vicino alle cose. Perciò, la cultura è oggi una risorsa indispensabile innanzitutto perché è la sola a permettere di rivalutare criticamente e di migliorare questa politica e questa economia, con un linguaggio condiviso con i cittadini.

Una nuova cultura adeguatamente rifocalizzata viene oggi ricercata spasmodicamente in tutto il mondo perfino come supporto alla competitività degli Stati e delle imprese. Non si entra qui nella diatriba, in corso anche a livello mondiale, fra i sostenitori della cultura tecnica e di  quella umanistica. Come persona che ha trascorso più di trent’anni in una decina di imprese europee, posso affermare che entrambe queste culture sono necessarie, tanto per il legame sociale, quanto per lo sviluppo economico, sia al livello della formazione dei quadri, sia, ed ancor più, nell’orientamento delle scelte strategiche verso obiettivi ambiziosi dal punto di vista tecnico, economico e anche politico. Le due culture dovranno sempre più integrarsi e sostenersi a vicenda.

La cultura tecnica dovrà fornire a cittadini e alle classi dirigenti i necessari strumenti per inserirsi con un ruolo determinante nelle attuali dialettiche mondiali,economiche, ma anche politiche. La cultura umanistica servirà per poter dialogare su un piede di parità con tutte le culture del mondo e per individuarne indirizzi umanamente accettabili per gli sviluppi tecnologici.

E dunque, quand’anche l’importo totale della “torta” dell’economia europea dovesse ridursi in modo permanente, vi saranno sempre più pressioni, e ragioni obiettive, per dedicare alla cultura, intesa nel senso globale di cui sopra, una fetta crescente della “torta” stessa, anche se con l’urgenza di fare di più con meno risorse. Ma, per poter risolvere quest’equazione, non bastano abili manovre ragionieristiche, né sofisticate lottizzazioni politiche, né tirare semplicemente la cinghia. Occorre soprattutto una rinnovata concezione della cultura, più focalizzata sull’impegno personale e sui contenuti che non sulla burocrazia, sul professionalismo e sulla mediatizzazione.


4.         La questione delle risorse

Una delle debolezze principali dei sostenitori della cultura di fronte alla politica dei “tagli” indiscriminati consiste nella difficoltà di chiarire che la cultura comprende in sé e serve a mobilitare, direttamente o indirettamente,  una gran parte di attività sociali che, nella presente società post-industriale rappresentano addirittura la maggior parte dell’ occupazione e del reddito: dalla politica all’artigianato, dall’ economia alle produzioni tipiche, dall’alta tecnologia al turismo, dalle industrie innovative alla scuola, dai media alle professioni, dall’ informatica alla tutela del territorio.

La maggior parte dei cittadini europei e italiani (manager o ristoratori, studiosi o artigiani, imprenditori creativi o insegnanti, artisti o consulenti aziendali, ricercatori o liberi professionisti, giornalisti o informatici) lavora in questi settori, e fa della cultura il proprio principale strumento di lavoro e, spesso, anche il principale output della propria attività.

Perciò, la sinergia con altre attività sociali non può essere ingenuamente ridotta, come giustamente osservato dall’ assessore Boeri,  al mecenatismo, ignorando invece la sinergia naturale e inestricabile fra l’investimento in cultura di tutte queste figure professionali, come gli imprenditori culturali, i professionisti del terziario avanzato, i ricercatori, e le chance di successo delle loro attività, che fanno sì che la cultura possa sempre contare su queste forze sociali.

Il problema prioritario non è, poi, la scarsezza delle risorse, bensì la mancanza di buon senso nell’uso che si fa delle risorse esistenti, con squilibri enormi e repentini, e la conseguente impossibilità, per i cittadini prima ancora che per le imprese e per gli Stati, di progettare in modo sensato le loro vite - non solamente economiche -, le quali non devono certo essere spese solamente nel difendersi dalle continue oscillazioni e diktat dell’economia. Quindi, la mancanza di una vera “Cultura della stabilità”, che dev’essere affermata prima negli animi e nelle menti che non nei conti pubblici.


5.    I compiti da affrontare

Un solo esempio di compiti urgenti e disattesi. Oggi tutti, a cominciare dall’America, dalla Cina e dalla Russia, esigono imperativamente dall’Europa il consolidamento del ruolo politico dell’Europa, che si è ignorato per decenni, come indispensabile per salvare il sistema economico mondiale. Tuttavia, come dimostrano le interminabili “querelles” nel cuore stesso, franco-tedesco, dell’ Europa, non è pensabile superare le attuali divergenze, fra nazioni e scuole di pensiero, sulla “governance”, senza un lavoro a tutto tondo sull’identità culturale del Continente. Tale identità è, a nostro avviso, persuasiva almeno altrettanto quanto quelle americana e cinese, sulle quali si fondano, tra l’altro, anche le rispettive politiche economiche di quelle aree, e i sacrifici che da sempre hanno richiesto e richiedono ai loro cittadini. Tuttavia, essa è stata trascurata in Europa, quasi ch’essa fosse un lusso intellettualistico, anche se già i Padri Fondatori avevano ammonito che, quando la costruzione europea avesse dovuto incagliarsi, si sarebbe dovuti ripartire dalla cultura.

Quindi: rinascita della cultura europea, per proporre ai cittadini un modello di società con più Europa e per sostenere un ceto politico creativo, che realizzi finalmente un Governo europeo veramente focalizzato sull’Europa, e quindi capace di por fine al caos economico e sociale oggi imperante.

A causa della scarsa autoriflessione delle nostre società, nonostante il risveglio degli ultimi decenni, solo una parte infinitesima delle risorse europee, ma anche italiane, sono state fino ad ora adeguatamente valorizzate. Basti pensare che l’Europa ha il maggiore PIL, le maggiori risorse finanziarie, la maggior produzione culturale, ma ha il 30% del suo debito in mano ad investitori stranieri, e arriva a pregare il mondo intero di salvare l’Euro, e perfino ad avere un saldo negativo dell’interscambio culturale cogli USA.

Si impone una valutazione globale e corale degli scenari, che includa l’economia internazionale, il ruolo dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, le politiche dei soggetti pubblici, le culture e le disponibilità delle imprese. Solo alla fine tutto ciò potrà tradursi, a nostro avviso, in progetti complessivi per l’Europa. Questo passaggio è un compito prioritario della cultura, che deve essere di stimolo alla politica. Solo da una base culturale condivisa si potrebbe rilanciare rapidamente un dialogo senza pregiudizi sul governo dell’Europa, interrottosi ingloriosamente con la bocciatura della Costituzione Europea.

E’infatti impensabile che i Tedeschi e altri Paesi nordici accettino di annacquare radicalmente la loro - vincente - cultura della stabilità per venire incontro alle difficoltà dell’Europa Meridionale, o che gli Slovacchi rischino le loro poche e sudate riserve per i “ricchi” Italiani, o che i Greci accettino gravosissimi sacrifici per salvare l’Euro, se non vi è la coscienza profonda di un comune spazio culturale, e, quindi, di un comune destino. In questa consapevolezza, si rivelerebbe l’assurdità della puerile visione secondo cui il problema si ridurrebbe al fatto che i mediterranei spendaccioni vorrebbero fare pagare i loro debiti ai Tedeschi intraprendenti e risparmiatori.

Coscienza comune che non ci sarà però mai finché il “mainstream” della cultura e dei media europei ignorerà aspetti fondamentali per gran parte d’Europa, che sono essenziali nell’ identità di molti popoli: per esempio, le antiche civiltà danubiane e dell ‘Europa Centrale e Orientale,  islamiche e ebraiche in Europa; gli antichi progetti di unificazione europea; gli stessi rudimenti della filologia germanica o slava. Al punto che l’Europeo medio conosce molto meglio Manhattan che non Berlino, Varsavia o Istanbul; la Guerra del Vietnam che non la storia di Solidarnosc. La stessa idea di libertà, che dovrebbe essere al centro dell’identità europea, viene rappresentata in modo così retorico da trasformarsi in omologazione, conformismo e arroganza. Perché mai il cittadino dovrebbe sacrificarsi per questa Europa?

Quindi, innanzitutto, incremento dei contenuti europei nell’insegnamento delle lingue, della storia, dell’arte, delle religioni, dell’economia e della geografia, e il sostegno a quelle produzioni mediatiche che contribuiscono alla conoscenza reciproca fra gli Europei. L’attuale spinta all’incremento del contenuto tecnico dell’educazione non è di ostacolo, bensì di stimolo, a quest’accresciuta offerta culturale. Un ottimo esempio di ciò è costituito dalla Media Literacy caldeggiata dall’ Unione Europea, che può divenire un eccezionale strumento di diffusione della cultura europea “tout court”.


II.  UN PROGRAMMA ITALIANO DI CULTURA EUROPEA PER IL RILANCIO DELL’UNIONE.

1.    Le priorità

Quali dovrebbero essere, allora, le priorità?

a)      occorre sostenere (per esempio con la creazione di un’Accademia Europea) lo studio e il dibattito a tutto tondo sulle sfide in gioco a livello mondiale, con una visione globale della cultura, che comprenda tutti i settori, dalla cultura “alta”, alla libera creatività dei cittadini;dalla cultura tecnica a quella umanistica; dalla cultura occidentale contemporanea a quelle dell’Asia, dell’Africa e del Sudamerica; da quella scientifica a quella filosofico-estetica; da quella religiosa a quelle del lavoro; da quella politica a quella del management;

b)      quindi, passare da una cultura da “flaneurs” disincantati , a una cultura di cittadini impegnati, i quali ,come già a suo tempo nelle culture classiche, nel loro fare filosofia o arte, economia o letteratura, musica, ricerca scientifica o management, tengano sempre presente la loro responsabilità di contribuire al chiarimento delle grandi questioni della società (che oggi sono questioni europee e anche mondiali), e lo facciano, quando necessario, anche con il sacrificio personale;

c)      nel fare ciò, non è, oggi, il momento per i dogmi: si incontrano e si scontrano popoli nuovi e diversi, nuove culture, nuove generazioni. Non vi è nessuna ragione per privilegiare il nuovo rispetto a ciò che è consolidato, ma neppure viceversa, dichiarando “non negoziabile” l’insieme dell’esistente;

d)      poi, la politica, lungi dall’arroccarsi nella pretesa di essere la sola depositaria delle culture politiche e sociali, dovrà ora aprirsi al dibattito con la cultura e con la tecnica, sui fini della politica e sul contesto auspicabile di un nuovo sistema mondiale, su una nuova Europa che dovrà occuparsi anche, e soprattutto, di scuola, di nuove tecnologie, di media, di lavoro, di politiche industriali, di politica estera e di difesa;

e)      infine, anche la cultura ufficiale dovrà uscire dal corporativismo, dal tecnicismo e dal mercatismo, e avere nuovamente il coraggio di impegnarsi nel dibattito sulla res publica, e di confrontarsi con i non addetti ai lavori, e, in generale, con i cittadini:”La democrazia partecipativa, i blog, i siti web, Facebook, Twitter, impongono che le scelte siano passate al vaglio di ampie discussioni, in Rete e non solo lì”;

f)       per concludere, alla luce delle risposte ai punti precedenti, la politica dovrà compiere un’opera sensata e trasparente di programmazione delle risorse per la cultura, la scuola, la ricerca scientifica, il terziario avanzato, il territorio, il turismo, a livello europeo, nazionale, locale, ripartendo i compiti fra pubblico, privato e terzo settore, in modo da adeguarsi alle risultanze di quel grande dibattito.

Tutto ciò, date le urgenze, non può avvenire in sequenza, bensì dev’essere fatto in parallelo.


2.    Spunti di programma

Riteniamo che si possa fin d’ora immaginare che un vero programma culturale dello Stato Italiano debba  comprendere:

-        una campagna per la piena attuazione  dei Titoli XII e XIII del Trattato di Lisbona, in materia di educazione, formazione e cultura e, in particolare, di media, scuola, ricerca scientifica, promozione internazionale del turismo europeo;

-     la razionalizzazione degli strumenti europei in materia culturale, con l’alleggerimento della burocrazia e il coordinamento con gli strumenti in materia di formazione, di ricerca scientifica, con le politiche regionali e strutturali, soprattutto nelle aree delle tecnologie per i media, della valorizzazione del territorio, della mobilità intelligente, dell’intelligenza artificiale, dello spazio e della cibernetica;

-        il lancio di nuovi progetti europei come Galileo, che è partito proprio adesso, verso i quali canalizzare gli sforzi tecnologici anche delle imprese minori, che solo in tal modo possono essere elevate a livello di avanguardia;

-        la sponsorizzazione della nascita (possibilmente in Italia), e sfruttando anche risorse esistenti:

          -   di un’Accademia d’ Europa che, al di là della formazione superiore, costituisca uno spazio di incontro ai massimi livelli fra studiosi, dirigenti e cittadini sui temi della cultura - umanistica, sociale, culturale e artistica - europea;

          -   di un Museo Virtuale dell’Europa, capace di far conoscere a tutti i cittadini europei, mettendo in rete il patrimonio culturale italiano come punto di partenza per comprendere l’infinita ricchezza e diversità della storia e della cultura europea;

-        il rafforzamento, nelle scuole di ogni ordine e grado, dei contenuti europei di tutte le materie di insegnamento, attraverso progetti concreti,eventualmente connessi a “Media Literacy” come “Introduzione al multiculturalismo”, “Storia della cultura europea”;”L’Europa e le sue Regioni” ;

-        il rafforzamento del coordinamento dei curricula, in modo da favorire al massimo la mobilità intraeuropea degli studenti e dei laureati;

-        l’aggiornamento dei contenuti degli insegnamenti tecnici e umanistici, per farvi rientrare anche tutte quelle nuove materie senza le quali non è oggi possibile, né una seria riflessione culturale, né una sana strategia d’impresa, né l’accrescimento della produttività, né la capacità di promozione internazionale: informatica, linguistica, in particolare delle lingue europee e orientali, neuroscienze e bioetica; diritto internazionale comparato; cibernetica; culture comparate; risparmio energetico, eccetera;

-      l’applicazione delle migliori pratiche di formazione dei Paesi europei “vincenti”, come per esempio il numero chiuso, i prestiti d’onore e l’uso massiccio dell’apprendistato, secondo il modello tedesco;

-      il coinvolgimento permanente dei mondi della cultura, della scuola, della ricerca scientifica, delle industrie creative e di alta tecnologia, del terziario avanzato, del turismo, in “Stati Generali Permanenti della Cultura per l’ Europa”,


Questi miglioramenti hanno carattere qualitativo, non quantitativo. Di conseguenza, essi non richiedono risorse aggiuntive, ma permettono grandi razionalizzazioni, soprattutto se attuati insieme agli altri Europei e battendosi per lo snellimento della burocrazia per fare fronte alla crisi.

Altro strumento per fare fronte alla crisi, il fare un maggiore ricorso alla creatività dei cittadini e delle imprese, che non avranno difficoltà ad aprire i cordoni della borsa se la cultura da loro autoprodotta sarà trattata su un piede di parità con quella prodotta da istituzioni ufficiali, e in modo tale da aprire anche ad essi le porte della visibilità e dei mercati culturali.





SENZA UNA SCELTA IDENTITARIA FORTE, NON C'E'SALVEZZA PER L'EUROPA


No Exit from Crisis Without European Identity
Pas de sortie de la crise sans identité européenne
Kein Ausgang aus der Krise ohne europaeischer Identitaet

L' opinione pubblica europea, cloroformizzata dall'eccesso di informazione, si risveglia, di tanto in tanto, dal suo torpore quando è in gioco il portafoglio.

E' così che si è manifestato un certo qual interesse per la crisi europea e la creazione dei "Governi tecnici". Tuttavia, a noi sembra che l'invadenza del circo mediatico  sia voluta anche in questo caso proprio per offuscare la chiarezza dei termini della questione.

Che le Comunità Europee siano state volute "senza un anima" per poter comunque realizzare qualcosa  dopo lo sfacelo della 2a Guerra Mondiale, era chiarissimo a tutti, ivi compresi i Padri Fondatori; che l'Euro sia stato costruito per costringere gli Europei a darsi una politica comune, è altrettanto noto.

Inutile, perciò, lamentarsene.

Ora, però, siamo venuti al dunque.

L'Europa senz'anima è sotto gli occhi di tutti: genera  mancanza di senso, corruzione, mancanza di entusiasmo. Lo squilibrio  dell' Euro è inevitabile, con una Germania fanatica della stabilità e tutto il resto d'Europa sempre più fagociato dall' economia ipercreditizia americocentrica.

Finalmente, si è capito che ci vuole almeno una politica finanziaria comune. E'difficile però comprendere come questa potrebbe funzionare senza una politica economica comune, che, infatti, almeno alcuni invocano.Quello che pochi capiscono, è che una politica economica comune non è possibile senza una politica generale comune, e quest'ultima senza un' identità comune.

La politica economica americana, quella della crescita infinita, del leverage finanziario, dell'egemonia delle corporations, del "fallout tecnologico" dal militare al civile, sta e cade con il ruolo messianico dell'America quale realizzatrice del paradiso in terra grazie alle "robuste virtù" puritane e all'esportazione della democrazia (la "Casa sulla collina"). Le diverse declinazioni, più militaristica o più ecologica, sono variazioni all' unico tema, dal quale non si può uscire: "love it or leave it".

La politica economica cinese, dal "grande balzo in avanti" alle "Quattro Modernizzazioni", dalla svalutazione dello Yuan al privilegiamento dei consumi interni, stanno e cadono con la massima confuciana: "se il Zhong Guo (il Regno) è in ordine, il Tian Xia (l'Ecumene) è in ordine", in chiaro: la Cina è una parte così essenziale della comunità mondiale, che quest'ultima si può reggere solo   sulla stabilità e sulla prosperità della Cina. Un'altra massima, pronunziata anch'essa da Confucio al tempo degli Stati Combattenti, è stata manoscritta dal fondatore del KuoMinTang, SunYatSen, su un foglio oggi esposto nel suo mausoleo, e costituisce il punto di riferimento anche dei leaders della Cina Popolare: "Tian Xia Wei Gong" ("l'Ecumene riguarda tutti"). Anche qui, le scelte possono essere più integrazioniste, come avrebbero voluto i Taiping, o più isolazioniste, come cercavano di imporre le Guardie Rosse, ma si trattava sempre di variazioni sull' unico tema del Tian Xia (che non a caso è al centro del film "Hero" (Ying Xong) di ZhangYiMou.

L'Europa non può decidere nulla di sostanziale perchè si rifiuta di individuare il suo "Leitmotiv", che le permetterebbe di condurre, al proprio interno, un dibattito sensato. Anche noi abbiamo una massima lasciataci dai Padri Fondatori: "RICOMINCIARE DALLA CULTURA".

Contrariamente dall'America e dalla Cina, la nostra cultura non è, come si dice oggi, "essenzialistica", cioè fondata su un "ordine del cosmo"(Li), "eguale", come diceva Bush, "in ogni tempo e in ogni luogo". Essa è una ricerca, che ci accomuna per esempio all' Islam, che afferma, con Maometto: "utlub il-haqqan, wahwa fis-Sin" (cerca la verità, foss'anche in Cina). E, tuttavia, anche questa ricerca ci impone dei vincoli: il dialogo socratico, il rispetto perfin suicida per le leggi non scritte, la "parrhesia", cioè la libertà di parola fino al martirio, l'"aletheia", cioè il non nascondimento, e, quindi, l'angoscia esistenziale, da cui nasce la vita autentica.

Questa "ricerca" ha anche dei risvolti politici, anche se non così evidenti: il rispetto e la difesa delle identità e delle differenze, nostre e degli altri, il che, nol mondo globalizzato, significa innanzitutto controllo della tecnica e dell' economia e ricerca di nuovi meccanismi di partecipazione,  capaci di non fare sparire la persona, né sotto un unico apparato mondiale,  informatico-burocratico, né sotto i diktat  di un "pensiero unico". L'Europa non è necessaria tanto per frenare (forse inutilmente) lo spostamento della ricchezza a Oriente, quanto per difendere questo particolare modo d'essere contro la morsa di colossi che sono talmente omogenei all'idea delle "macchine intelligenti", da adattarsi di buon grado al predominio di queste ultime.

Quindi, l' Europa è necessaria innanzitutto come un insostituibile "hub" della cultura libera, poi come base territoriale e tecnico-economica per  una nuova statualità, capace di essere parte attiva nelle grandi decisioni del mondo, non già la vittima designata di pericolosi esperimenti altrui.

Quindi, l'interesse per l'economia c'è, ma solo come conseguenza dell' esigenza di costruire questo spazio di libertà. Se sprechiamo le nostre vite a inseguire irrealistiche chimere di ricchezza e di benessere, a pararci dai turbini della crisi econiomica endemica, a lottare senza risultati contro gli slogan del sistema mediatico globalizzato, non riusciremo mai a costruire delle vite degne di essere vissute. 

Il legittimo desiderio "impolitico" di vivere secondo le nostre inclinazioni non può, a nostro avviso, realizzarsi senza una difesa "politica" continua della nostra "identità e differenza": Questa difesa è l'"Identità Europea". Solo essa ci permette di concepire uno Stato Europeo impegnato nel mondo ma aperto al pluralismo, efficiente e prospero, ma non ossessionato, né ossessivo, e un'economia che sfugga agli opposti estremismi della"religione del PIL " e della "mitologia della stabilità".

Per realizzare questo equilibrio, l'economia europea dev'essere forte, non condizionata, né dalla speculazione, né dal Fondo Monetario Internazionale. Ma questa forza non può essere, ancora e sempre,se non  un fatto culturale. L'Europa ha parecchie centinaia di milioni di abitanti, e un PIL superiore a quelli degli Stati Uniti e della Cina. Non c'è alcuna ragione per cui la sua economia debba crollare, se gli Europei si concepiranno come un'unica identità, anziché come tante tribù l'una contro l'altra armata.

Se l'Europa ha un suo modello di società equilibrata, deve avere anche una sua politica economica aliena da dogmi, capace di "cavalcare", con gli strumenti di volta in volta più appropriati,  tanto le fasi di espansione che quelle di crisi, senza repentibni e distruttivi "salti" per i suoi cittadini. Quindi, va bene la stabilità, ma fin che questa sia possibile; va bene l'incentivazione all'economia, ma solo se necessaria.La scelta fra le varie opzioni ha un contenuto tecnico, ma innanzitutto una valenza culturale.

Quindi, un vertice (Parlamento, Consiglio, Commissione, Presidenza) ben conscio dell' Identità Europea, che programmi con il dovuuto anticipo, ma abbia anche tutti i poteri per intervenire tempestivamente.

Quindi, una Banca Centrale che non sia la tenutaria di una mitica politica monetaria fine a se stessa, ma esprima, entro una filosofia generale elastica e condivisa, la visione del vertice politico, che a sua volta deve rispettare l'Identità Europea.






























giovedì 10 novembre 2011

STATI GENERALI DELLA CULTURA

  


Meeting in Turin about the Future of Culture
Assemblée à Turin sur l'avenir de la culture
Versammlung in Turin ueber die Zukunft der Kultur

Segnaliamo come particolarmente appropriata questa manifestazione che giunge, molto opportunamente, proprio quando la crisi mondiale, europea, italiana, piemontese e torinese porta tutto a convergere verso i "tagli alla cultura".

Poiché, invece, non vi è dubbio che, proprio di fronte alla crisi, sarebbe necessario più che mai  fare ricorso alle risorse della cultura per rovesciare il presente trend negativo, si impone più che mai un dibattito serrato fra la politica e il mondo della cultura, per  individuare nuove soluzioni non solamente per fare fronte al contingente, bensì anche per affrontare in modo strutturale la crisi della nostra società.

Perciò ben venga il fatto che il PD, che ha, nel nostro territorio, particolari responsabilità amministrative, si soffermi su questo problema, nell' ottica di farsi portatore di un punto di vista generale.

Cogliamo l'occasione per fare presente, però, che le più recenti tendenze, a livello internazionale e europeo, segnalano un desiderio sempre più forte da parte dei cittadini di partecipare alla creazione della cultura, di non porsi solo come spettatori, ma come protagonisti della cultura.

Speriamo che i politici, e, in generale, le istituzioni, prendano atto di questa volontà di partecipazione, e aprano a tutti  le porte delle istituzioni culturali, in modo da realizzare una totale solidarietà fra cittadini e istituzioni in questo momento di difficoltà che può anche divenire un momento di creatività.

Ciò premesso, riportiamo qui di seguito il testo dell' invito:

"SABATO 19 NOVEMBRE 2011, CASA DEL TEATRO RAGAZZI, DALLE ORE  9.30 ALLE 16.30: STATI GENERALI DELLA CULTURA.
 

AMMINISTRATORI, OPERATORI E ASSOCIAZIONI A CONFRONTO: IDEE E PROPOSTE PER LA CULTURA DI DOMANI A TORINO E IN ITALIA.

In vista dell'appuntamento con gli Stati Generali della Cultura, previsti a Roma il 3 e 4 dicembre, il Partito Democratico di Torino, in collaborazione con il Gruppo Pd  della Città e della Provincia, si mobilita promuovendo un'importante occasione di confronto e scambio con il vasto mondo della cultura torinese nelle sue molteplici forme.
L'assemblea si propone di raccogliere le esperienze e le istanze provenienti dal variegato panorama culturale della Città di Torino e dei  Comuni della Provincia, coinvolgendo quanti nei territori, in tempi di crisi e di tagli, consentono alla cultura di vivere: amministratori, rappresentanti di associazioni e fondazioni, operatori del settore
L'appuntamento torinese rappresenta inoltre un occasione per condividere con le forze vive della società una nuova alleanza, un patto capace di dare prospettiva  e slancio alle tante energie che sono state protagoniste di una grande stagione, che ha  accresciuto l'attrattività della nostra realtà territoriale e delineato una nuova identità.
Gli Stati Generali del 19 novembre a Torino possono diventare un vero e proprio incubatore di idee e stimoli alla costruzione di un modello di sviluppo alternativo, in cui la cultura rappresenti un volano di sviluppo e occupazione, cardine di una proposta di Governo che metta il Paese nelle condizioni di risollevarsi dal declino economico e morale in cui è precipitato.
All'iniziativa, prevista alla Casa del Teatro Ragazzi in corso Galileo Ferraris 266, sono stati invitati sindaci, assessori e consiglieri di Torino e Provincia, fondazioni e associazioni culturali, operatori e lavoratori del mondo della cultura. Conclude Matteo Orfini, Responsabile Nazionale Cultura e Informazione del Partito Democratico."