giovedì 10 novembre 2011

IL RUOLO DEI BRICS NELL'EQUILIBRIO MONDIALE



Seminar in Unione Industriale of Torino Emphasizes role of Emerging Countries
Un séminaire auprès de Unione Industriale de Turin souligne l'impoertance des pays émergents
Ein Seminar bei Unione Industriale in Turin behauptet wachsende Rolle der neuesten entwickelten Laender.


La globaliizzazione non è un fenomeno nuovo, tanto che la stessa emigrazione “Out of Africa” può essere considerata come una prima forma di globalizzazione. Secondo Le Monde Diplomatique, quella attuale sarebbe addirittura la quinta globalizzazione della storia.
D'altra parte, è da molto tempo che i grandi pensatori si affannano a definire i parametri di una convivenza mondiale. Basti pensare a Dante.
L’urgenza delle sfide della contemporaneità (umano e postumano, sostenibilità del modello economico, rischio di una guerra infinita) rende più che mai evidente, l’esigenza di migliorare la cooperazione internazionale, superando l’inadeguatezza del quadro attuale delle organizzazioni internazionali a rispondere alle domande del mondo attuale.
Per questo, da parecchi secoli anche i giuristi hanno cercato di definire il ruolo delle organizzazioni internazionali.
I mondi della tecnologia, della finanza e della guerra affrontano già oggi efficacemente a modo loro le grandi questioni dell’umanità, con una sperimentazione tecnologica sganciata da ogni considerazione etica e perfino dal principio di precauzione, la perpetuazione di una crisi economica endemica, che non tiene conto delle esigenze vitali dell’umanità, e, infine, la contrapposizione forzata fra popoli e civiltà.

1.    Inadeguatezza del quadro internazionale

Le varie conferenze sull’ambiente, i G7, G8 e G20, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le proposte di rilanciare la crescita a livello mondiale assomigliano sempre più a grida manzoniane, mentre si susseguono notizie allarmanti in tutti i campi, come quelle sulla clonazione di esseri viventi, sui licenziamenti in massa, sui sempre nuovi teatri di guerra, dichiarata o no, simmetrica o asimmetrica, ecc..
Al di là delle giustificazioni tecniche e/o geopolitiche, l’attuale impasse delle organizzazioni internazionali è dovuta, a nostro avviso, a un vizio di carattere culturale, vale a dire l’impostazione cosiddetta “funzionalistica” delle strutture politiche, sulla base della quale, per dare, al mondo, un reggimento comune nell’interesse di tutti, basterebbe l’applicazione di principi di ragione che si suppongono comuni a tutti.
Questa illusione ha, a nostro avviso, un carattere marcatamente ideologico: essa presuppone, infatti, che per tutte le questioni, e comprese quelle sociali, vi sia un’unica soluzione universalmente valida, e che, perciò, basti individuare, e, successivamente, se del caso, imporre, tale soluzione.
Tale approccio si sta rivelando, prima ancora che sbagliato, inefficace perché irrealistico.

2.    Globalizzazione e identità

Proprio il diffondersi della globalizzazione ha fatto emergere con sempre maggiore evidenza che quest’ultima non può essere accettata senza una contemporanea rivitalizzazione delle identità locali e culturali. Quanto più gli scambi tecnici ed economici pongono gli uomini a contatto gli uni con gli altri, tanto più ogni individuo, gruppo o territorio, sente il rischio di essere travolto da un meccanismo impersonale, e si aggrappa all’identità individuale, di gruppo e/o di territorio, come ad un punto di riferimento su cui fare leva per affermare le proprie esigenze.



3.    Il pluralismo come necessario supporto alle decisioni

La soluzione dei grandi problemi dell’umanità non può avere luogo senza, da un lato, tenere conto dei punti di vista di diverse culture, tradizioni e gruppi, e, dall’altro, offrire, grazie all’applicazione del “principio di sussidiarietà”, a tutte le parti dell’Umanità, il diritto di gestire il proprio ambito interno secondo le esigenze della propria cultura e le risultanze delle proprie interne dialettiche.
Ciò vale fra la comunità internazionale e le grandi aree culturali, fra le grandi aree culturali e i grandi Stati, fra i grandi Stati e le loro Regioni, fra le Regioni e gli Enti Locali, fra gli Enti Locali e i corpi intermedi, la Società Civile e l’Associazionismo, fra l’Associazionismo e le persone.
È quanto viene normalmente sotteso dalla parola “democrazia”, ma non dalla realtà fattuale che viene, oggi, identificata con questa parola, in quanto la maggior parte delle persone e delle idee non ha oggi spesso la possibilità di farsi ascoltare di fronte alle grandi strutture egemoni.

4.    Pari dignità delle culture

La riforma delle organizzazioni internazionali dovrà, quindi, a nostro avviso, passare prioritariamente attraverso il riconoscimento della pari dignità delle grandi aree culturali: occidentale, estremo orientale, del Sud del Mondo, eccetera.
Pari dignità che non va confusa con un generico buonismo (che non accetta fino in fondo la diversità), ma deve prendere atto che queste aree culturali posseggono una loro intrinseca logica, loro propri costumi, un certo modo di vedere i problemi dell’umanità - logica, costumi e visione che possono (e debbono) essere anche confliggenti, se si vuole che possano costituire effettivi contributi al dibattito ed alla creatività -.
Questa banale realtà è, a mio avviso, totalmente misconosciuta anche da coloro che si ritengono accesi multiculturalisti.

L’argomento è troppo vasto per trattarlo in questa sede; mi limiterò perciò ad un esempio, a mio avviso molto eloquente.
Nelle scuole occidentali o, almeno, in quelle italiane, l’insegnamento della filosofia è normalmente limitato alla sola filosofia europea. Nessuno avverte neppure, di solito, che il corso è, appunto, di filosofia europea, e che esistono corpi analoghi, e dello stesso spessore, di filosofia indiana, cinese, islamica, americana, ebraica, eccetera, che, da un lato, sono simili, ma, dall’altro, diversi dalla filosofia europea, e che, inoltre, l’hanno influenzata e ne sono state influenzate.

5.Occidentalismo

Orbene, quando si passa al discorso politico e sociale, si pretende che i concetti derivati da questa filosofia europea costituiscano principi universali, validi per tutti i continenti.
Concetti fortemente radicati in altri contesti culturali come Dharma, Karma, Samsāra, Tiān-Xia o Sharīa, sono considerati del tutto irrilevanti per la soluzione delle questioni socio-politiche del mondo intero, o, addirittura, vengono considerati come ostacoli per una corretta soluzione degli stessi.
Questo punto di vista è irrealistico, perché i fatti dimostrano che tali concetti continuano ad improntare i comportamenti dei governanti e della popolazione di ampie aree del mondo, come, per esempio, quando, ai Giochi di Pechino, è stata presentata una storia dell’umanità tutta incentrata sulle conquiste e le scoperte della Cina (il Zhong-Guo, il Paese di mezzo del Tiān-Xia), o come quando, in seguito alle rivolte popolari nel mondo arabo, i nuovi governanti hanno riaffermato il ruolo della Sharīa come fonte del diritto - ruolo che nessuna legislazione medio-orientale, né quella modernistica ottomana  , né quelle coloniali, né quella degli Stati sorti dall’indipendenza, ha sostanzialmente intaccato. D’altronde,  anche le legislazioni codicistiche di origine occidentale nel Medio Oriente,hanno riservato spazi alla Sharīa come fonte, o hanno, addirittura, ricalcato certi articoli sui principi del diritto mussulmano. Il che è assolutamente normale se si pensa che anche le legislazioni occidentali hanno come fonti storiche fondamentali diritti antichi non statuali, come il diritto romano, il diritto comune medievale quando non il diritto canonico.


Come ha affermato recentemente su La Stampa Ian Lindon: «Se non si capisce questo può sfuggire come le problematiche standard legate ai modelli di sviluppo abbiano spesso suscitato il garbato rifiuto dei supporti beneficiati. Risultato: un mucchio di soldi buttati via».
Per evitare  che le deliberazioni degli organismi internazionali restino lettera morta, e si scatenino infinite guerre aventi, come obiettivo effettivo, quello di imporre a tutti i continenti l’adozione alla logica, ai costumi ed alle visioni occidentali, occorre, dunque, che le logiche “altre” vengano accettare come base del dibattito internazionale, con la stessa forza ed importanza di quella occidentale.

6.    Critiche al multiculturalismo

C’è chi sostiene che tali logiche non sarebbero pertinenti in quanto, di fatto, esse non sarebbero più utilizzate neppure più nei Paesi dove esse sono nate, nei quali si applicherebbe, in realtà, solo la logica occidentale.
Quest’affermazione deriva in gran parte dalla disinformazione. Di tutti i giorni dei cittadini comuni come delle “élites” restano estremamente diversi nei vari Continenti. Come possono, infatti, uomini politici, intellettuali e uomini dei media (per non parlare dei comuni cittadini), che non hanno ricevuto una formazione neppure elementare sulle storie, culture, religioni e politiche degli altri continenti, affermare che cosa sta succedendo in tali continenti? Personalmente, ho viaggiato, soprattutto per lavoro, nelle Americhe, in Africa, in Europa Orientale e in Estremo Oriente e posso confermare che le idee e i comportamenti
Costituisce, perciò, a mio avviso, un compito preliminare quello di riformare i curricula di insegnamento in modo tale da fornire, nelle scuole di ogni ordine e grado, una preparazione adeguata circa la linguistica, la storia, la filosofia, la cultura e la politica di tutte le parti del mondo.
Ci sono poi altri che sostengono che, addirittura, le identità collettive non esistono perché, in realtà, ogni individuo è diverso da un altro, sicché raggrupparli in qualunque modo avrebbe un carattere arbitrario.Prescindendo per un momento dal fatto che, come osservava Huntington, proprio un grande antropologo che aveva scritto il libro “Contro le identità”, pochi anni dopo si era ricreduto, ed aveva scritto un altro libro per combattere la perdita dell’identità ebraica, crediamo che la dimostrazione più semplice ed efficace dell’esistenza delle identità e dei rischi della loro eliminazione sia costituito proprio dall’esempio della storia della filosofia.

7.La filosofia come cultura media territorializzata.

Il dibattito pubblico fra i nostri cittadini ed i nostri politici è fondato su argomenti tratti dalla storia della filosofia europea (arbitrariamente definita come “filosofia” tout court): “libertà” e “tirannide”, “monarchia” ed “oligarchia”, “aristocrazia” e “democrazia”, “repubblica” ed “impero”, “Stato” e “Chiesa”, “progresso” e “rivoluzione”, sono tratti da questa filosofia.
Una conoscenza, per quando mediata e riflessa, di tali concetti, costituisce dunque un presupposto necessario per partecipare a qualsivoglia dibattito politico in Occidente, e la loro ignoranza da parte dei più è una delle principali ragioni dell’inefficacia dell’attuale democrazia.
Se però i nostri cittadini dovessero dibattere anche di “Karma” e di “Dharma”, di Tiān-Xia, di Velayet-i-Faqih, o di “Eurasia”, si troverebbero, certamente, in una ancor maggiore difficoltà. Quel poco di partecipazione effettiva, che ancora è presente nel nostro sistema, andrebbe definitivamente perduto. Un radicale multiculturalismo è possibile solo a livello di vertice, mentre un dibattito largo è possibile solamente in base a culture localizzate.
Con ciò, risulta già definita, anche se rozzamente, la sostanza di un’identità culturale occidentale, così come si possono definire parallele identità culturali di altre aree del mondo, caratterizzate da un’analoga concentrazione dell’ educazione su una determinata parte della storia culturale.
L’impossibilità di abbracciare l’intera gamma della ricchezza culturale dell’Umanità è un’ennesima dimostrazione della finitudine umana, una finitudine che, paradossalmente, proprio globalizzazione e democrazia rendono più evidente.


8.    L’emergenza dei BRICS

Se l’invocazione di un atteggiamento più equanime nei confronti delle diverse culture è stato sempre privilegio di un’élite, e lo ritroviamo, per esempio, in Erodoto, nel Corano, in Sant’Agostino, Marco Polo, Kabir, Bartolomé De Las Casa e Matteo Ricci, nell’imperatore Akbar, in Leibniz, Voltaire, Diderot, Goethe e Jung, nella cultura pietroburghese dell’800 e ’900.Essa non ha mai trovato un’eco altrettanto chiara nella politica, nelle dottrine politiche e nelle culture popolari, dove è prevalso molto spesso un atteggiamento di disprezzo verso i “barbari”, i “goīm”, i “kuffār”, i “miscredenti”, i “diavoli stranieri”, l’“Asse del Male”.Per altro anche alcuni "grandi", come Kant, Voltaire e Marx, hanno dato prova di uno sconcertante disprezzo per i popoli extraeuropei.
Tuttavia, a meno che non vi voglia arrivare a una terza Guerra Mondiale, è chiaro che oggi il ruolo sempre crescente dei BRICS fa sì che non sia più neanche realisticamente possibile immaginare un mondo globalizzato che prescinda dall’universo culturale dei grandi popoli dell’Asia.
Ci sono già state in passato fasi e momenti in cui il mondo occidentale è stato fortemente influenzato, anche culturalmente, dai popoli asiatici, non solamente nell’antichità e nel Medioevo, ma anche, per esempio, il gauchismo dalle idee del Presidente Mao, il movimento hippy dalla cultura indiana ed in mondo manageriale da quella giapponese.Tutto fa prevedere che, nei prossimi decenni, vi sarà una nuova ondata di interessamento per le culture dell’Oriente, le quali, in ogni caso, hanno scoperto l’esigenza di imitare l’Occidente nel creare proprie industrie culturali, che veicolano i loro valori in tutto il mondo.




9.    Fuori dall’egemonia del Chiliasmo

Poiché riteniamo che le identità collettive esistano, riteniamo anche che la nostra identità, come europei e come piemontesi, possa trarre grande giovamento da questa prevista ondata di interessamento per le culture orientali.
Le ragioni di questo giudizio sono le più svariate.
La prima è che, come ho già illustrato, a mio avviso, è impossibile risolvere i problemi mondiali senza il contributo attivo di tutte le culture del mondo. Orbene, se siamo seriamente interessati alla soluzione di questi problemi, dobbiamo auspicare una più ampia utilizzazione dei concetti delle culture orientali.
La cultura occidentale è, a mio avviso, oggi troppo unilateralmente influenzata dall’interpretazione secolarizzata della tradizione apocalittica, interpretazione denunziata già da Sant’Agostino, la quale incomincia a prevalere fra il 18° ed il 19° secolo, trasformandosi ben presto nel mito di un’apocalisse materialistica (la Rivoluzione, la “Pace Perpetua”, il Superuomo, la “Fine della Storia”, la “Singularity”).
Si è perduta, in tal modo, la salutare ambiguità del "Mysterium Iniquitatis" annunziato dalla 2ª Lettera ai Tessalonicesi, che era stata, in passato, un'eredità della cultura europea.
Le culture orientali offrono, di converso,  importanti spunti di riflessione sull’ambiguità della fine della storia, dalla ricchissima tradizione indiana circa l’infinità degli eoni (i “Kalpas”), alle idee confuciane di Dagong e Taiping, fino alle visioni islamiche sul Mahdī. Tutte idee che hanno, non meno dell’Apocalisse di Giovanni, uno stretto collegamento con l’attualità.
A nostro avviso, una cultura occidentale che tenesse conto di questi insegnamenti, e che, pertanto, si interrogasse più seriamente sul significato, sociale ma anche individuale, della finitezza umana, potrebbe reinterpretare in modo più equilibrato la stessa cultura occidentale, allontanandosi, così, dal “mainstream” culturale scientistico e tecnocratico, per il quale la “fine della storia” consisterebbe nella realizzazione dell’obiettivo della tecnica di sostituire, alla religione, alla cultura umanistica ed alla stessa natura umana, un universo artificiale dotato di quelle stesse caratteristiche di unitarietà, perfezione, spiritualità ed immortalità che un tempo venivano riconosciute alla divinità.


10.      Un Occidente più equilibrato

Se, e nel caso in cui, la riequilibratura in corso fra le culture dell’Est, del Sud, dell’Ovest e del Nord del mondo avesse successo, lo stesso Occidente ne trarrebbe un obiettivo vantaggio, in quanto l’eccessivo peso acquisito dalla visione chiliastica del fondamentalismo puritano e del materialismo economicistico non permette, oggi, di vedere che, dell’Occidente, fanno egualmente parte l’estremo Nord russo, e perfino, a nostro avviso, lo stesso Islam, che è una religione abramitica, con tratti molto forti che lo accomunano, alcuni all’ebraismo, ed altri al cristianesimo.
Infatti, l’affinità fra America e Russia, Europa e Medio Oriente, risulta evidente se si confrontano le loro scritture alfabetiche con le scritture ideogrammatiche o sillabiche dell’Oriente, le loro religioni di salvezza con le religioni filosofiche dell’Oriente, la loro idea di storia con le idee di permanenza o di ciclicità delle filosofie orientali.
Una siffatta rivisitazione del concetto di Occidente dovrebbe portare, a nostro avviso, anche a comprendere il carattere centrale dell’Europa, sede storica del Cristianesimo, vera religione mondiale, ma anche luogo di scontro fra le sue più svariate tendenze ed eredità, e, inoltre, base importante tanto per l’Islam quanto per l’Ebraismo.
Una siffatta Europa “Centrale” dovrebbe, a mio avviso, orientarsi verso modelli culturali nuovi e diversi, che comprendano nuovamente gli insegnamenti degli altri continenti, tanto nella teologia, quanto nella gnoseologia, che, infine, nel pensiero politico ed economico.
Quindi, l’Europa ha tutto da guadagnare da questo riequilibrio delle culture mondiali, già solamente dal punto di vista della riconquista della propria autenticità, che non può essere letta senza le influenze dei popoli delle steppe, delle civiltà medio-orientali, senza l’ammirazione per la Cina di Marco Polo, di Ricci, di Leibniz e di Voltaire, senza la base induistica della filosofia di Schopenhauer, e, indirettamente, di tutta la cultura decadente europea.

11.    Lo spostamento dell’economia ad Oriente

Se così stanno le cose, allora anche lo spostamento dell’economia ad Oriente, che ora fa tanto paura, va visto, a mio avviso, più come un’opportunità che non come un pericolo.
Contrariamente ad una sorta di “arrier pensé” molto diffuso, a me non è mai sembrato che il periodo del miracolo economico, prolungatosi nella versione francese con le “trente glorieuses”, sia stato un periodo particolarmente positivo della storia dell’Europa, che aveva vissuto certo ben altri periodi aurei come quello della Grecia classica, della Roma augustea, dell’al-Andalūs ebraica e islamica, dell’Impero degli Hohenstaufen, dell’Umanesimo e del Rinascimento, dell’Illuminismo e del Romanticismo.Fu un’epoca di irrilevanza politica dell’Europa, di vano affaccendarsi, di oblio della grande cultura, di esagerata politicizzazione.La fine di quell’epoca, e l’avvio di una nuova epoca di più ampi orizzonti, di maggiore apertura culturale, di nuove opportunità di creazione, dev’essere, a nostro avviso, benvenuta.

Certo, a partire dallo “shock petrolifero”, dalla caduta del Muro di Berlimo e dall’emergere dei BRICS, viviamo una fase di grandi assestamenti, che rivelano le debolezze della società europea costruita, nella seconda metà del 20° secolo, su un concreto equilibrio mondiale, che, come tutti gli equilibri storici, non avrebbe potuto comunque essere eterno.

La complessità della crisi sta giustamente costringendo gli Europei a riflettere sulla sostenibilità a lungo termine del loro sistema economico, sulla ragionevolezza o meno di rimanere ancorati ad un sistema finanziario occidentale che ha difficoltà a sopravvivere, sulle opportunità, anche economiche, offerte dalle tumultuose economie dei BRICS.

Ma anche qui una rivoluzione culturale sta per rivelarsi indispensabile. Per decenni abbiamo costruito la formazione dei giovani sull’Inglese, sulle teorie di management americane, su tecniche di comunicazione mutuate da Hollywood, senza che nessuno sappia nemmeno dove si trovano, per esempio, il Guandong o il Tamil Nadu, dei veri e propri mega-stati che hanno un peso determinante sullo sviluppo della cultura e dell’economia mondiale.

Ma i nostri studenti non sanno nulla neppure della storia dell’Impero Ottomano, né sulla cultura russa o polacca, tutte cose che dovrebbero costituire una parte integrante di una formazione europea.

Così stando le cose, è più che normale che le nostre imprese non siano in grado di cogliere in modo pieno tutte le opportunità economiche del momento.


12.    Un concetto olistico di multiculturalismo

Quanto sopra costituisce, per così dire, un’introduzione a quello che è, per me, il nuovo concetto di multiculturalismo, adatto ai tempi che ci attendono.
Multiculturalismo significa vedere in modo quanto più obiettivo possibile, coll’aiuto di uno studio aperto ed approfondito e con l’aiuto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, le infinite sfaccettature della realtà del mondo di oggi, che non si lasciano incasellare in nessuna formula semplicistica: né cristianesimo contro miscredenza, né progresso contro arretratezza, né Occidente contro Oriente, né ricchi contro poveri, eccetera.

Nel mondo vi sono, oggi, Paesi sovraffollati e Paesi pressoché deserti, Paesi opulenti e Paesi devastati dalla fame e dalle epidemie, Paesi in tumultuoso sviluppo ed altri in totale decadenza.Si confrontano stili di vita, culture, ideologie, diversissime: da quello, rarissimo ma ancora presente, dei cacciatori-raccoglitori, a quello, anch’esso ristretto ma in espansione, dei ricercatori di frontiera; dall’ideologia della conservazione della tradizione a quella del progresso permanente; dai cultori della liberaldemocrazia occidentale a quelli di uno Stato-partito.

Capire questo mondo significa ottimizzare tutte le opportunità di conoscenza, in modo da ampliare quest’ultima quanto più possibile, seppur compatibilmente con il carattere limitato e differenziato dell’umanità.

Occorre sfruttare la curiosità dei giovani, lo zelo degli specialisti, il coraggio dei pionieri, la potenza dei mezzi di comunicazione, le risorse pubbliche e private.Portatori di questa rinnovata cultura pluricentrica saranno, sicuramente, organismi pubblici, come, per esempio, gli Istituti Confucio o Russkij Mir, ma anche istituzioni indipendenti, come le Chiese e le Università, e, soprattutto, gli intellettuali indipendenti ed i lavoratori migranti, che costituiscono un’enorme armata in continuo movimento, che portano con sé il patrimonio vivo delle loro culture. Così, i Cinesi d’oltremare portano la loro cultura in tutto il mondo, gli immigrati medio-orientali in Europa, i sudamericani in America.

L’Europa, meta di flussi di migrazione diversissimi all’interno dell’Europa stessa, dal Medio Oriente, dalle ex colonie e dalle ex Repubbliche ex-sovietiche, dispone, con ciò, di uno strumento unico di internazionalizzazione, che è lungi dall’essere stato adeguatamente e completamente sfruttato.

Gli euro-islamici, euro-cinesi, euro-indiani, eccetera, possono e debbono divenire un indispensabile ponte fra l’Europa ed il resto del mondo, per una migliore comprensione reciproca, ma anche per favorire al massimo le opportunità economiche.Ma ciò presuppone di abbandonare su tutti i piani i vecchi stereotipi: immigrati poveri ed ignoranti che devono integrarsi, abbandonando la loro cultura; popoli extraeuropei arretrati che devono essere salvati e indottrinati; cultura occidentale che deve costituire la base, su cui le altre si devono allineare.


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