mercoledì 21 dicembre 2011

APPELLO DEL CENTRO STUDI SUL FEDERALISMO

  We shall recall  all Europeans to their duties, now

Nous devons desormais rappeller tous les européens à leur devoir, maintenant

Wir sollen jetzt alle Europaeer zu ihren Pflichten mahnen, jetzt

 

Siamo lieti di pubblicare su queste pagine l'appello del Centro Studi sul Federalismo ai leaders europei sulla crisi economica, di cui condividiamo i contenuti. Condividiamo anche il fatto che sia irrealistico aspettarsi che i leaders  possano avere, alla ulteriore integrazione dell' Europa, un approccio diverso da quello del cosiddetto "piano inclinato", vale a dire quello di attendere che siano i fatti stessi a rendere inevitabili i successivi passi dell' integrazione .

Riteniamo per altro anche che i fatti umani non si svolgano secondo un piano prestabilito, bensì siano in gran parte anche l'effetto di azioni spregiudicate di intellettuali e politici eccentrici, come dimostrano gli eventi e i personaggi più rilevanti della storia italiana e europea: per esempio, Carlo Magno e Papa Leone, Lutero, Melantone, Zwingli e Calvino, Mazzini, Gioberti e Cavour, Coudenhove-Kalergi, Galimberti, Spinelli, Monnet, Schumann, Adenauer e De Gasperi. 

D'altronde, è anche ben vero  che, come aveva sostenuto già Nietzsche più di un secolo fa, sono i fatti stessi a spingere verso l'unificazione europea, ma, tuttavia, tale unificazione sarebbe praticamente inutile se, prima ch'essa si  realizzasse, se ne fossero neutralizzati tutti gli effetti positivi. 

Nietzsche credeva infatti nella positività dell' Europa perchè, nonostante il suo pessimismo, riteneva che il superamento dell' umano fosse un obiettivo da perseguire incondizionatamente. Invece, noi ci stiamo rendendo conto che tale superamento potrebbe rivelarsi una catastrofe, soprattutto se la tecnocrazia e il complesso burocratico-militare fossero  riusciti, prima della nascita della Federazione Europea,  a completare la militarizzazione integrale del mondo, eredità del "Secolo Breve", e attualmente in corso a tutto volume, attraverso la centralizzazione, in pochi centri segreti, di tutte le informazioni rilevanti, il controllo capillare  della vita di ciascuno attraverso la "trasparenza" del web e la strumentalizzazione delle neuroscienze, la censura in automatico delle opinioni dissenzienti, il trasferimento di tutte le funzioni umane rilevanti alle "macchine intelligenti", e la diffusione a tappeto delle nascenti tecniche della cyberguerra (disinformazione attraverso il web, bombe elettroniche, droni,"robot in grigioverde", ecc...).

A nostro avviso, il ruolo storico dell'Europa Unita è proprio quello di incarnare in modo energico lo jonasiano  "principio di precauzione", che ci impone di adoprarci contro gli eccessi della tecnocrazia. E' un compito che non può essere lasciato ai politici, né, tanto meno, ai tecnocrati, bensì dev' essere preso decisamente in carico  dagli intellettuali.

Per questo, noi, come Associazioni, abbiamo già, da gran tempo, avviato, fin dalla "Festa dell' Europa" del 9 Maggio 2010, un processo volto a portare avanti un progetto di chiamata a raccolta degli intellettuali europei ("Ricominciare dalla Cultura"), i quali, a nostro avviso, avrebbero la precisa responsabilità di svolgere tempestivamente una riflessione collettiva e di carattere complessivo su questi temi, e, poi, di indirizzarsi ai politici, e, infine, di formare la coscienza del popolo europeo. 

Il rivolgersi rispettosamente ai potenti sul tema dell' Europa,cosa che ha, per altro, una tradizione eccelsa (Marini, Petrarca, De las Casas,  Lutero, Erasmo, Machiavelli, Vieira, Sully, St.Pierre, Rousseau, Leibniz, Baader, De Maistre, Nietzsche, Coudenhove-Kalergi, Spinelli), forse, non funziona più (se mai ha funzionato).

Crediamo, in ultima analisi, che, oramai, gli intellettuali europei, senza cessare di rivolgersi alla Casta, debbano sforzarsi anche di mobilitare il popolo europeo.

 

"Appello ai leader europei:

per un euro e un'Europa della stabilita' e dello sviluppo


La crisi economica e finanziaria internazionale e quella dei debiti sovrani europei sta mettendo a rischio le fondamenta dell'eurozona. L'Unione europea potrebbe disintegrarsi.

I decisori politici dell'Unione e degli Stati membri sono chiamati a dare prova di fermezza, coraggio e lungimiranza adottando subito provvedimenti in grado di scongiurare i gravissimi rischi mondiali che la crisi di credibilita' dell'eurozona puo' ingenerare.

Solo tenendo insieme le ragioni del rigore e quelle dello sviluppo, l'urgenza presente e le opportunita' future sara' possibile fornire una risposta coordinata e credibile alla crisi.

E' necessario che i leader europei sappiano rispondere, con i fatti, alle aspettative dei mercati ma, anzitutto, ai timori e alle speranze di milioni di cittadini europei.

Questo puo' avvenire solo se, uniti e solidali, fin dal Consiglio europeo del 9 dicembre prossimo, si muoveranno in tre direzioni, coordinate ed esplicitamente annunciate:
- la messa sotto controllo delle finanze pubbliche degli Stati membri dell'eurozona;
- una credibile azione europea per stabilizzare i debiti pubblici degli Stati membri dell'eurozona;
- il varo di un piano europeo di sviluppo sostenibile.


Va definito un pacchetto di misure che consenta di rafforzare, sotto l'egida della Commissione europea, la disciplina di bilancio degli Stati membri, con misure vincolanti in termini di controllo, sanzioni, costituzionalizzazione degli impegni assunti. A questo si devono accompagnare le necessarie riforme interne, in particolare negli Stati membri in cui e' piu' pesante l'onere del debito pubblico.

Proprio le garanzie di disciplina nazionale possono e devono aprire la via a una risposta europea al problema del debito, attraverso gli stability bond e il rafforzamento del Fondo Salva-Stati, incluse le sue capacita' di rapido finanziamento sul mercato. La Banca centrale europea, nell'ambito del proprio mandato, puo' compiere i passi necessari per assicurare la liquidita' indispensabile al sistema finanziario.

Ma e' fondamentale che il 9 dicembre si annunci anche il varo di un "piano di sviluppo sostenibile" europeo, da mettere in atto a partire dal 2012. "Agli stati il rigore, all'Unione lo sviluppo". Va appoggiata la posizione della Commissione europea e del Parlamento europeo per un bilancio dell'Unione dotato di risorse proprie comunitarie, in sostituzione di quelle nazionali, che possa mettere in cantiere un piano di investimenti per le infrastrutture, la promozione della ricerca e la creazione di beni pubblici, finanziato da project bond.

Per consolidare la capacita' dell'eurozona di rispondere alle crisi future - e di beneficiare delle opportunita' di crescita di un mondo in trasformazione - sara' necessario riformare i Trattati, anche per raggiungere l'obiettivo finale di una finanza federale europea. Ma fin da ora i leader della Ue e degli Stati membri dell'eurozona possono agire come un "Governo provvisorio dell'economia europea".

Solo se si sapra' costruire un ponte tra il presente e il futuro si potranno superare i limiti di un progetto che rimane un'acquisizione formidabile e insostituibile per l'Europa tutta, alla quale ha assicurato pace, stabilita' e crescita. Un'Unione europea all'altezza delle sfide della crisi richiede, da subito, leadership e lungimiranza.

Torino, 1 dicembre 2011


CENTRO STUDI SUL FEDERALISMO
(www.csfederalismo.it)



Appeal to European leaders:

for the Euro and the European stability and development


The international economic and financial crisis and the problem of European sovereign debt is seriously undermining the foundations of the Eurozone: the European Union could disintegrate.

The decision-makers of the Union and its Member States are being called upon to show fortitude, courage and vision by immediately putting measures in place able to stave off the hugely serious worldwide risks that the credibility crisis in the Eurozone can engender.

Only by combining rigour with development, the present urgency with future opportunities, will it be possible to provide a coordinated and credible response to the crisis.

It is necessary for European leaders to be able to give a concrete, factual response to the expectations of the markets and, above all, to the fears and hopes of millions of European citizens.

This can only happen if the members of the European Council work as one in concert at the meeting of 9 December in order to take three coordinated and unequivocally announced steps:
- keeping control over the public finances of the Member States in the Eurozone
- a credible Europe-wide action for stabilising the public debt of Member States in the Eurozone
- the launch of a European plan for sustainable development.

A package of measures needs to be defined for strengthening - overseen by the European Commission - the budgetary discipline of Member States by means of binding measures in terms of control, sanctions and constitutionalisation of the commitments undertaken. This must come with the necessary internal reforms, particularly in those Member States where the burden of public debt is highest.

It is the guarantee of national discipline that can and must pave the way to a European response to the problem of debt. This should take the form of stability bonds and a reinforcing of the EFSF, including its capability for rapidly funding on the market. The European Central Bank's mandate allows it to take the necessary steps to ensure the liquidity indispensable for the financial system.

But it is essential that, on 9 December, there is also announced the launch of a "European plan for sustainable development", to be implemented as of 2012. "To the Member States, rigour; to the Union, development". Support must given to the position of the European Commission and the European Parliament for a budget of the European Union funded by independent own resources instead of national ones, which could be the basis for an investment plan focused on infrastructures, research and common goods, financed by project bonds.

To consolidate the Eurozone's ability to deal with future crises - and to benefit from the growth opportunities in a changing world - it will be necessary to reform the Treaties, also aiming to the final objective of a European federal financial plan. However, the EU leaders and the Member States of the Eurozone can begin straight away by acting as a "Provisional Government of the European economy".

Only if we are able to build a bridge between the present and the future will it be possible to overcome the limitations of our project of unity, which still continues to be a formidable and irreplaceable achievement for the whole of Europe, and which has ensured peace, stability and growth. A European Union able to rise to the challenge of the crisis requires an immediate show of leadership and vision.

Turin, 1 December 2011


CENTRO STUDI SUL FEDERALISMO
(www.csfederalismo.it)"
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martedì 20 dicembre 2011

IN CINA QUALCUNO CI AMA


Huang Nubo e il suo sogno svanito in Islanda

 Chinese elites love Europe
Les elites chinoises auiment l' Europe
Chinesische Eliten lieben Europa.

Riportiamo l’interessante intervista della Frankfurter Allgemeine Zeitung del 10 dicembre con i Cinesi Zhao Tingyang e Huang Nubo.

L’articolo di Mark Siemons, intitolato “Wir Können nicht die ganze Welt Retten” (“Non possiamo salvare il mondo intero"), è dedicato alla fondamentale questione di come le enormi disponibilità finanziarie della Cina possano, e/o debbano, essere utilizzate per finanziare la stabilizzazione e il rilancio dell’economia europea.

L’articolo prende, e opportunamente, le mosse dal “Florentia Village”, una città artificiale costruita fra Pechino e Tianjing, la quale costituisce, per così dire, un "riassunto" di Roma, Venezia e Firenze.Si tratta, ovviamente, di un “outlet” facilmente raggiungibile, in pochi minuti, dalle due metropoli cinesi, grazie al modernissimo treno ad alta velocità “Armonia”.

L’articolista approfitta di questo scenario per porre in evidenza la domanda fondamentale che tutti si pongono in Cina (ma anche in tutti gli altri BRICS), circa la la quale ultima, secondo il Cinese (ma anche il Russo) medio, sarebbero inficiate soprattutto dall’eccessivo benessere degli abitanti, ben superiore a quello dei Cinesi (e dei Russi).Basterebbe, in quest'ottica,  che gli Europei accettassero di ridurre il loro benessere per avvicinarlo a quello dei Cinesi (e/o dei Russi), ed, allora, non vi sarebbe più alcuna crisi economica.

Vi è, in tutto questo, molta verità, e lo abbiamo già detto in altri post. E, tuttavia, le cose non sono così semplici. Esistono, infatti, per la Cina, eccellenti ragioni economiche per investire in Europa. 

Intanto, è fondamentale l’esigenza di non fare fallire l’Europa, principale partner commerciale della Cina.

In secondo luogo, vi è l’obiettiva necessità, da parte della Cina, di diversificare le proprie riserve.

Infine, c’è la volontà, della Cina stessa, di utilizzare le proprie disponibilità finanziarie come uno strumento per rendere più equilibrata la “governance” economica mondiale.ù

Zhao Tingyang, filosofo, insegna all’Accademia di Scienze Sociali di Pechino. Zhao si dimostrerà ben più favorevole alla cooperazione con l’Europa della media dei suoi connazionali, e perfino dei “filoeuropei” politici cinesi. Intanto, in quanto filosofo, Zhao parte dalla constatazione che l’idea di Kant, secondo cui la vittoria delle repubbliche mercantili avrebbe portato alla pace perpetua, non si è verificata, in quanto, come ha osservato giustamente Huntington, Kant non aveva considerato sufficientemente la diversità fra le culture e le visioni del mondo.

Secondo Zhao, ciò che è rilevante non è l’omogeneità fra le culture, bensì l’equilibrio nei rapporti.Sulla base di questo punto di vista,  Zhao intravede, per il futuro, una sorta di  "triumvirato" mondiale, costituito dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalla Cina. Ubn' Europa trasformata sotto l’influenza della Germania, potrebbe essere aiutata a rafforzarsi attraverso massicci investimenti cinesi nelle infrastrutture.

Ancor più europeista, il grande finanziere Huang Nubo, che, dopo aver cercato inutilmente di creare un grande centro turistico sinico-europeo-americano in Islanda, ed essendo stato, alla fine,  rifiutato dagli Islandesi,  organizza ora un grande progetto conoscitivo cinese nel Nord Europa, per studiare leggi, politica e clima degli investimenti, in vista di creare, in quella regione,  una nuova centrale del proprio impero finanziario, che si estende già ora fra la Cina e gli Stati Uniti.

Secondo l’articolista Mark Siemons, questo progetto finanziario costituirebbe già l’attuazione pratica della visione geopolitica di Zhang.





LAI TIS EVROPIS, XESIKOTHITE!



Europe, wake-up!
Europe, reveille-toi!
Europa, erwache!

Le febbrili trattative nella notte fra l’8 e il 9 dicembre hanno finalmente portato ad un accordo sulla politica fiscale comune dell' Europa, sulla messa a disposizione di ulteriori fondi per il sostegno del debito sovrano europeo, sulla riduzione del tasso di interesse della Banca Centrale Europea.
L’accordo, adottato da 26  Stati europei , anziché da 27, si riferisce in primo luogo ai Paesi dell’Eurozona, vale a dire quelli che hanno un interesse primario alla soluzione della crisi.Come tale, esso è stato salutato con sostanziale favore tanto negli ambienti politici, quanto dai mercati finanziari.
Certamente, l’accordo non è stato sottoscritto dal Regno Unito e da altri Paesi non aderenti all’Euro. Inoltre, è stato respinto in là nel tempo l’ulteriore proposta, fatta propria, tra l’altro, anche dall’Italia, di introdurre fin da subito gli “Eurobonds”, vale a dire obbligazioni parzialmente o totalmente europee garantite, parzialmente o totalmente, dagli Stati membri e/o dalla Banca Centrale Europea.
Vi sono senz’altro vari aspetti positivi, soprattutto per coloro che sostengono la cosiddetta “teoria del piano inclinato”, vale a dire che il progressivo avanzamento dell’Europa verso una federazione è un processo inevitabile ed automatico. E, in effetti, dopo l’accordo di ieri, ci dovrà essere una modifica dei trattati, che sancirà una cosiddetta “unione fiscale” fra i 17.
Dopo un certo periodo, verranno, ovviamente, in discussione, finalmente,  anche gli Eurobonds. E, siccome gli Eurobonds servono a finanziare la spesa pubblica, l’Europa finirà per ingerirsi sempre più pesantemente nella spesa pubblica, prima in modo indiretto (vale a dire controllando il rispetto del rigore di bilancio), poi, più direttamente, vale a dire promuovendo essa stessa nuovi investimenti coperti dagli Eurobonds. A quel punto, si porrà il problema di una coerenza complessiva dei comportamenti economici dell’Unione, il che porterà alla necessità di una complessiva politica economica dell’Europa.
Ma neppure quest’ultima sarà alla lunga possibile senza che una siffatta politica economica venga collegata e connessa con altri tipi di politica, come, per esempio, quella estera e di difesa, quella culturale, quella della ricerca scientifica, eccetera.
Dunque, tutto è bene ciò che finisce bene? Siamo lontani dal crederlo.
I sostenitori della “teoria del piano inclinato” partono dall’ipotesi, a nostro avviso totalmente infondata, che l’Unione Europea, nella sua evoluzione, si trovi ad operare all’interno di un mondo asettico e disincarnato, quello detto della “posthistoire”, nella quale non esistano pressioni di gruppi di opinione e/o di interessi, di Stati, di eserciti, di alleanze militari; ove non esistano diplomazie segrete, servizi segreti, corruzione, conflitti, corse agli armamenti, eccetera.
Mentre l’Europa discute con tutto comodo su come organizzare le sue politiche fiscali, in tutto il mondo i conflitti culturali, ideologici, politici, spionistici, militari, eccetera, si scatenano con rinnovata violenza.
I propositi pre-elettorali del Presidente Obama, di trattare senza pregiudizi e da pari a pari con tutti i poteri del mondo, ivi compresi quelli ostili, si sono arenati in un nulla di fatto, e, anzi, si sono trasformati oramai in uno sforzo a tutto tondo non solamente per mantenere, ma, addirittura, per intensificare, su tutti gli schacchieri mondiali, la pressione americana volta ad imporre una presenza sempre più forte della sua ideologia, dei suoi eserciti, delle sue imprese, eccetera.Ad esempio: collocamento dei missili antibalistici non solamente in Polonia, ma anche in Spagna, in Romania, in Turchia, nel Mar Baltico e nel Mare di Barents; decisione di mantenere le truppe in Afganistan fino al 2024 e di dislocare ex novo 2.500 uomini in Australia, oltre che un altro numero non identificato in Africa.
Ovviamente, tutto ciò non ha mancato di suscitare violente reazioni di segno opposto in tutti i Paesi interessati: dal Pakistan, che ha minacciato di usare l’arma atomica contro gli Stati Uniti; alla Russia, che ha messo in stato di allerta i missili dislocati a Kaliningrad; alla Cina, che, non un “revirement” di 180°, ha dichiarato che i suoi sforzi saranno in futuro concentrati prioritariamente alla messa in efficienza dell’esercito e della flotta; all’Iran, che è riuscito a catturare indenne un sofisticatissimo drone-spia americano ed ora si accinge a clonarlo.
Oltre a questi conflitti propriamente "militari", tutte le principali aree del mondo sono attraversate da tensioni politico-culturali senza precedenti: negli Stati Uniti si assiste per la prima volta ad un movimento di contestazione che attacca i centri stessi del potere economico; tutti gli Stati dell’America Latina hanno appena lanciato una nuova organizzazione regionale senza gli Stati Uniti e senza il Canada; nel Medio Oriente, la cosiddetta “primavera araba” è sfociata in un braccio di ferro, sulla vecchia falsariga turca, fra maggioranze parlamentari islamiste e generali  occidentalisti; in India, prosegue la guerriglia naxalita; in Russia, si assiste ad un conflitto a più voci fra la piazza filo-occidentale e quella ultranazionalista, fra Russia Unita e le opposizioni di estrema destra ed estrema sinistra.
L’Europa non può tenersi fuori all’infinito da queste tensioni, che rischiano, in ogni momento, di travolgerla. Inoltre, la militarizzazione generale della vita sociale, con il controllo elettronico di tutta la vita sociale (cfr., per ultimo, l’abolizione del segreto bancario) rischiano di fare, anche dell’Europa, una “società di controllo totale”, ove i conclamati ideali di libertà e di autonomia individuale si stanno trasformando in una sfacciata mistificazione.
L’attuazione delle riforme economiche dell’Europa ha bisogno del supporto finanziario dei BRICS, e, per questo, essa non può tenere una politica ostile agli stessi. Di converso, gli Stati Uniti continuano a richiedere ai Paesi Europei un sostegno, di uomini ma anche, e soprattutto, finanziario e di mezzi, per continuare la loro costosissima presenza militare in ogni angolo del globo. È particolarmente significativo, a questo proposito,  che, in un momento in cui l’Europa chiede selvaggi sacrifici a tutti i Paesi e a tutte le classi sociali, si sia concordato il prolungamento della missione afgana fino al 2024.Nel caso dell’Italia, il cui Primo Ministro lamenta di non potere più pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti, non è neppure stata discussa l’ipotesi di stralciare dal bilancio un ulteriore investimento per la difesa di 23 miliardi di Euro, per la maggior parte dedicato all’acquisto di obsoleti cacciabombardieri Lockheed F35, che, in America, si vogliono oramai toglieredalla produzione.
Quanto sopra significa che, se l’Europa non vuole fare la fine del classico  "vaso di coccio in mezzo aui vasi di ferro", ha bisogno, fin da subito, non solo di una sua politica fiscale, o anche solo  di una politica economica a tutto tondo, bensì di una politica globale a tutto tondo, capace di definire gli obiettivi storici del nostro Continente, i suoi specifici valori sociali, nuove strutture istituzionali in sostituzione della farraginosa burocrazia europea, degli Stati membri e degli Enti locali, i suoi rapporti con il resto del mondo.
Tutti ci risponderanno che ciò è oggi irrealistico. E, tuttavia, se non ci incomincia tempestivamente a sviluppare una concezione culturale dell’Europa, non si avrà mai una concezione politica globale, che vada al di là degli attuali occasionalismo politico e tecnocrazia.
Anche i più convinti europeisti sono, infatti, assurdamente convinti che già  esista una chiara concezione della cultura europea, che l’iter di evoluzione dell’Europa sia ineluttabilmente segnato e che bastino dei bravi tecnici, e/o, al massimo, dei bravi tattici e negoziatori, per eseguire al meglio il copione. Ci si dimentica che, su questioni come i limiti della tecnica, il confronto militare mondiale, l’economia sostenibile, il pluralismo culturale, occorre prendere decisioni epocali, che richiedono classi dirigenti con una solidissima formazione culturale.
Ciò non è vero, oggi, per l’Europa come non era vero all’inizio dell’Ottocento per gli Stati Nazionali.
Allora, sulla base delle esperienze inglese, americana, francese e russa, alcuni isolati intellettuali europei incominciarono a pensare all’esistenza di una “nazione culturale” tedesca, italiana, polacca, yugoslava.
Dopo la sconfitta di Napoleone, alcune sette cominciarono a coltivare l’idea delle nuove nazioni, e solo verso la metà del secolo un certo numero di intellettuali di “mainstream” cominciano a propagandare l’idea della creazione di uno stato nazionale.
Ma fu solamente nella seconda metà di quel secolo che tali Stati si concretizzarono, anche se solo allora cominciarono ad affrontare il compito immane dell’unità culturale.
La nascita della moderna nazione italiana parte dalle osservazioni filosofiche di Alfieri, dalla poetica moderna di Leopardi, dal culto degli eroi di Foscolo, dal cattolicesimo liberale di Manzoni, e solo allora si manifesta nella Giovine Italia e nella Società nazionale, e solo alla fine nei moti carbonari e nelle Guerre di Indipendenza.Così, l’idea di una Kulturnation nasce innanzitutto con il Teatro Nazionale Tedesco di Goethe e di Schiller, e con i discorsi di Herder e di Fichte. Solo allora si traduce nella guerra di liberazione nazionale e nella filosofia hegeliana della storia. E solo più tardi ancora nel Parlamento di Francoforte e nello Zollverein. E solo nel 1887 nascerà il 2° Impero Tedesco.
Torniamo dunque alla necessità innanzitutto di un lavoro culturale, paragonabile a quello degli Alfieri, dei Leopardi, dei Foscolo, dei Manzoni, dei Goethe, degli Schiller, degli Hegel e Heine, quelli che, delineando i tratti grandi, e, se vogliamo, universali, danno un senso, per così dire concreto, alla necessità della sua unità e indipendenza.
È paradossale che chi oggi esprime con maggior convinzione la fiducia in una specifica identità europea, capace di porsi in una posizione d’avanguardia rispetto al resto del mondo, sia oggi un intellettuale americano, Jeremy Rifkin, che parla, per la sua futura “società dell’empatia”, di un “Sogno Europeo”.



COPIARE LA GERMANIA

Germany, Europe's Social Heartland
L'Allemagne, le Coeur social de l' Europe
Deutschland, Europas  schlagendes Herz

 L’estrema debolezza dimostrata dall’Europa nel corso della recente crisi economica mondiale, e, ancora recentissimamente, l’incredibile difficoltà con cui la stessa sta tentando di adottare strumenti più adeguati per orientare l’economia dell’area Euro, dovrebbero imporre a  tutti gli ambienti  un severo esame di coscienza, riconoscendo che, nel complesso, tutti i sistemi di pensiero e di azione politica europea dovrebbero svolgere una radicale autocritica.

Infatti, solamente se si comprenderà perché non si è previsto quanto accaduto,  e/o agito a sufficienza per prevenirlo, sarà possibile apportare, all’attuale realtà, le modifiche realmente necessarie.

Partirei, quindi,  da due ordini di osservazioni:

-     in primo luogo, dal fatto che, nonostante che la crisi, vale a dire la riduzione del tasso di crescita, stia colpendo, in un modo o nell’altro, tutti i Paesi del mondo, vi sono almeno tre Paesi che, nonostante tutto, sono riusciti, fino ad ora, a mantenere un tasso di crescita costante ed elevato: la Cina, l’America e la Germania.

        Per ciò che concerne la Cina, le ragioni sono, a nostro avviso,  evidenti:

       -la Cina ha avuto, per 6000 anni e fino ad un secolo fa, il PIL più elevato del mondo, sicché la drastica riduzione dello stesso si spiega solo con le invasioni straniere e le guerre civili, che sono finite con la Rivoluzione Culturale;
          -la Cina è, con l’India, l’unico Paese ad avere un sistema di governo economico adeguato ai tempi, cioè a livello sub-continentale;

          -il fatto di avere centinaia di milioni di persone al di sotto del limite di povertà non è, certo, un ostacolo, bensì permette di accelerare rapidamente, con un’azione pubblica, il tasso di crescita, ogniqualvolta ciò si riveli necessario;

Gli Stati Uniti riescono ancora a scaricare sugli altri peasi gli effetti negativi delle proprie crisi, attraverso l’uso del dollaro come moneta di riserva, il controllo dei meccanismi finanziari mondiali, l’utilizzo delle leve militare e mediatica.


A nostro avviso, quella dialettica di tipo veteroideologico, che è stata utilizzata per spiegare, in passato,  i punti di forza della Germania, si sta rivelando, oggi, insufficiente, portando, con ciò, alla luce l’erroneità delle interpretazioni correnti, e l’imprescindibilità di una nuova, diversa, interpretazione.

Si è detto  che la Germania ha più alti livelli tecnologici e maggiore competitività, che le permettono di esportare anche con una moneta forte. Ma perché ciò è possibile, se anche la Germania Occidentale, come l’Italia, dopo la guerra, era distrutta, le sue attrezzature ed i suoi specialisti venivano portati nei Paesi vincitori, e se anche la Germania Est, come l’Ungheria, la Lettonia e la Romania, era stata completamente comunistizzata?

Noi avremmo  una ben precisa spiegazione, certo diversa da quelle azzardate dalle diverse scuole.Per ragioni complesse, riconducibili, in ultima analisi, alla storia della cultura tedesca, in Germania, dopo la 2ª Guerra Mondiale, si costruì un sistema sociale inedito, irriducibile a quelli degli Stati Uniti e a quelli di buona parte dell’Europa Occidentale, ma con grandi affinità solo con quello olandese, e notevoli affinità con quelli francese, scandinavo e austriaco.

Tale sistema era, ed è ancor ora, fondato su quattro pilastri fondamentali:

-      una politica di stabilità, come strumento di freno al leverage finanziario;

-     sostanziale socializzazione delle grandi imprese, dove la cogestione paritaria, la fine delle grandi famiglie, il ruolo delle banche, dello Stato e dei Länder, fanno sì che l’impresa non venga gestita nell’interesse degli azionisti, bensì in quelli complessivi degli stakeholders (in coerenza con le ancestrali teorie della "concezione istituzionale dell' impresa");

-    il riconoscimento di un ruolo centrale della classe operaia, fondato su due pilastri: la forte professionalizzazione attraverso l’apprendistato, e il forte ruolo del sindacato;

-      il ruolo centrale delle famiglie nelle piccole imprese, caratterizzato da particolari forme statutarie, fondate, non già sul livello della partecipazione azionaria di ciascuno, bensì su principi ereditari e consensualistici;

-      la forte integrazione fra città e campagna, fabbrica e agricoltura;

-     una tradizione di energica  legislazione a tutela del lavoro, la quale  risale addirittura a Goethe e a Bismark, e che prevale addirittura sulla volontà delle parti sociali.

È questo sistema sociale ad avere prodotto i risultati che oggi tutti ammirano.Non essendo ossessionate né dall’esigenza di chiudere positivamente l’esercizio, né dai conflitti successori, le imprese hanno continuato ad investire ininterrottamente nella formazione del personale, nella ricerca e sviluppo, nel rafforzamento dei marchi, nelle acquisizioni all’estero. Grazie a questa politica, i prodotti tedeschi si situano tutti nelle fasce alte, ad altissimo valore aggiunto (esempi tipici, Mercedes, BMW, Bosch, Miele). Tali prodotti non possono essere prodotti se non da manodopera altamente qualificata, la quale viene corrispondentemente remunerata.

Grazie a queste caratteristiche della propria produzione, la Germania non teme la concorrenza dei prodotti a basso costo, e riesce comunque ad esportare anche nei momenti di crisi.L’Euro forte ha ulteriormente favorito queste caratteristiche della Germania, da un lato, impedendo agli altri Paesi europei di difendersi con svalutazioni competitive, e, dall’altro, costringendo ancora di più le imprese tedesche a distinguere nettamente fra produzioni ad alto valore aggiunto, da mantenersi in Germania, e le altre produzioni, da delocalizzarsi.

Il progressivo diffondersi, anche in Germania, delle ideologie della globalizzazione (socialismo, capitalismo; flessibilità, tutela del lavoro) ha fatto sì che, spesso, neppure i Tedeschi si rendano conto dell’esatto profilo del loro sistema. Figuriamoci , poi, gli stranieri. Per questo, anche i dibattiti sulle future strutture di governance europea ne risultano falsate, perché il problema non è quello di un equilibrio fra diverse formule giuridico-economiche, bensì quello fra diverse strutture socio-economiche.

Ma, soprattutto, quest' errata interpretazione ideologica non ha consentito , fino ad ora, un adeguato dibattito sull’opportunità, e/o sull’imprescindibilità, per tutti gli Europei, di confrontarsi con il sistema tedesco, e, anzi, forse, addirittura, di imitarlo.

Le ragioni per le quali i pochi conoscitori del sistema tedesco lo hanno, in passato, sconsigliato, erano, a nostro avviso, prettamente ideologiche:

-      secondo i "cantori" delle capacità taumaturgiche del ceto imprenditoriale italiano, la cogestione alla tedesca e il ruolo centrale della classe operaia avrebbero posto in essere un sistema rigido, che avrebbe frenato la grande capacità di produrre ricchezza,  che secondo costoro, sarebbe stata tipica  dell’imprenditoria italiana;

-    secondo i fautori delle liberalizzazioni, i vincoli statutari delle grandi e piccole società tedesche avrebbero impedito i benefici effetti della "contendibilità" delle imprese (che, in effetti, in Germania non c’è mai stata), permettendo il mantenimento e il rafforzamento di tutto il sistema imprenditoriale tedesco, mentre invece, in Italia,l’Olivetti ha ceduto tutte le sue tecnologie all’estero, la Montedison non esiste più, la Fiat è in gran parte americana, eccetera;

-     secondo i fanatici della globalizzaione, le "metropoli tentacolari" sono in assoluto meglio delle campagne arretrate, e, pertanto, il legame con la campagna, vera radice sostanziale dell’ambientalismo, viene demonizzato.

A noi  sembra che ciò che è accaduto in questi ultimi anni dimostri che tutte queste teorie sono infondate. La Germania è riuscita a sopravvivere brillantemente a una temperie assolutamente catastrofica, in cui tutti coloro che hanno seguito le teorie opposte si trovano, ormai,  in gravissime difficoltà.

Si deve, e/o si può, imitare la Germania?

A nostro avviso, se si vuole che l’Europa possa costituire un ambito unitario di politica economica, capace non solo di salvaguardare l’“acquis communaitaire”, bensì anche andare avanti nel piano di realizzazione delle politiche sociali iscritte nei documenti europei, non c’è altra soluzione se non lanciare un grandioso piano di graduale trasformazione delle culture politiche, delle legislazioni e delle strutture di potere di tutti i Paesi Europei, pur tenendo presente che, fortunatamente, non sussisterà sempre una diversità fra le identità dei vari territori, che sventerà comunque sempre il rischio di un’omologazione.

Il punto è che l’Europa ritorni a seguire, come direttiva, il proprio specifico modello di sviluppo, allontanandosi, invece, dal modello dell’omologazione e della globalizzazione, che, come dimostrano i fatti, non è adeguato alle nostre società, e ci sta portando alla catastrofe.

A nostro avviso, un siffatto modello europeo di sviluppo "tedesco" è, sostanzialmernte, il modello europeo.


BIG BANG DELLA CULTURA EUROPEA


Woody Allen Joins European Forces against American Globalisation
 Woody Allen rejoins les forces européennes conte la mondialisationaméricaine.
Woody Allen teilt mit europaeischen Kulturkraeften den Kampf gegen Amerikanisierung.

Mentre le strutture politiche ed economiche dell’Europa stentano a consolidare un’adeguata riforma legislativa in materia di politica economica e finanziaria, e, ciononostante,  i mercati incominciano a stabilizzarsi, la buona notizia sta provenendo, a nostro avviso, dal campo della cultura europea, che era stata caratterizzata,  in questi anni, da una fase di inaccettabile inerzia, stagnazione e conformismo. Essa appare, invece,  nel corso degli ultimi mesi, rivitalizzarsi in vari campi, con l’emergere di prodotti di alta qualità, di elevata ispirazione, ma, soprattutto, veramente vicini alle problematiche degli Europei.

Come già detto più volte, rigettiamo la contrapposizione usuale fra, da un lato, una cultura identitaria, considerata limitativa e regressiva, e una cultura universale, positiva e progressiva.

Le culture identitarie costituiscono un corollario onnipresente e necessario della globalizzazione. Nel momento stesso in cui, con le due Guerre Mondiali, l’America avviava la propria espansione nel mondo, essa elaborava, da un lato, con i Western Cultural Studies, la teoria della cultura “occidentale”, e, dall’altro, la teoria delle “identità”, e, in primo luogo, quella dell’Identità Europea, appoggiandosi sugli studi di antropologi europei, come, in primo luogo,  Franz Boas.

Da allora, ad ogni passo in avanti della cultura omologante globalizzata ,ha fatto seguito la produzione di una nuova teoria culturale identitaria, molto spesso favorita , con un apparente partadosso, dall’industria culturale hollywoodiana.

A Hollywood vanno fatti risalire gli  stereotipi nazionali, come quello del Giapponese, o del Russo, fanatico o guerrafondaio, dell’Italiano mafioso, del Cinese infido e corrotto, del Messicano delinquente, eccetera, ma anche l’esaltazione, in positivo, di eroi del passato, da Alessandro, a Spartaco, a Robin Hood, a Elisabetta d’Inghilterra, descritti come illuminati anticipatori della moderna civiltà “occidentale”.

Anche la costruzione delle “identitàetniche moderne è, a nostro avviso, largamente debitrice della cultura hollywoodiana, la quale, come dicevamo, ha ripreso le teorie di antropologi che lavoravano per l’amministrazione e l’esercito americano, come, per esempio,nel caso de “La Spada e il Crisantemo”.

La costruzione di queste identità era funzionale alla visione di una leadership mondiale americana, nella quale le nazionalità avrebbero avuto un ruolo di "comprimarie" con l’America.

Ma, a tale fine, occorreva prima smontare e assorbire, in nuove identità, prive di ambizioni di leadership, le "nazionalità romantiche", e, prima ancora, le "nazionalità ancestrali", a cui quelle romantiche si ispiravano.

Le identità collettive moderne sono state, dunque, create per rendere possibile, e accettabile, la globalizzazione sotto la guida occidentale. Come tali, esse esistono in gran parte come epifenomeno della globalizzazione. Tuttavia, esse sono anche, almeno in teoria, utilizzabili nell’ambito di altri contesti.

Anche l’identità sudamericana, creata come forma di imitazione degli Stati Uniti, potrebbe benissimo evolvere, come nel caso del CELAC, in una funzione di indipendenza degli stessi.

A nostro avviso, perfino in Cina abbiamo assistito, all’inizio della disgregazione dell’Impero Qing, ad un fenomeno di importazione di un’"identità cinese occidentalizzante", vale a dire quella dei Taiping, sostenuta, anche militarmente, dagli Anglo-Americani, ma poi repressa dagli stessi quando il nascente impero rivoluzionario (cristiano e filo-americano) incominciò a manifestare un’ambizione di leadership nei confronti dello stesso Occidente. Non per nulla Mao considerava i Taiping come degli anticipatori della rivoluzione popolare cinese.

Che esse siano un fenomeno ancillare alla globalizzazione, ovvero ne siano un’alternativa, le identità esistono ed hanno una loro forza, più evidente in taluni casi (come, appunto, la Cina, il Medio Oriente o l’America Latina), meno evidente in altri.
Il caso dell’Europa è paradossale. Il progetto di unità dell’Europa si trascina da almeno 900 anni, da Dante, a Podebrad, a Sully, a St. Pierre, a St. Simon, a Proudhon, a Mazzini, a Nietzsche, a Coudenhove-Kalergi, a Spinelli, all’Unione Europea, eppure vi è ancora chi dubita che l’Europa abbia una sua propria identità culturale, vuoi perché si ritenga che le identità culturali non esistono, vuoi perché si ritenga che solo le nazioni abbiano un’identità culturale, vuoi perché si pensa che esista un’unica identità occidentale.

Ma è qui il paradosso. Coloro i quali negano che esistano delle identità culturali, spesso sono anche esaltatori della cultura americana e denigratori di quelle di altri Paesi, per esempio di quella islamica. Quindi, implicitamente, essi ammettono che tali identità esistono.

Coloro i quali sostengono che esistano solo le identità nazionali, non riescono però a spiegare in modo convincente in che cosa l’identità francese si distingua da quella spagnola o italiana, quella tedesca da quelle olandese, svizzera o austriaca.

Infine, coloro che pensano che vi sia una sola identità occidentale finiscono poi per attribuire tutti gli aspetti positivi all’America, e quelli negativi all’Europa, in tal modo dimostrando, una volta di più, che tali identità esistono.

Una serie di eventi culturali recenti, che fanno riferimento a questa unitarietà della cultura europea ci confortano in questo nostro assunto.
Citiamo, a questo proposito, come semplici esempi, alcuni prodotti culturali e mmanifestazioni che tendo a esaltare l'unitarietà e continuità della cultura europea:

-UNA SERIE DI RECENTI FILM, COME PER ESEMPIO, IL FAUST DI SOKUROV, MELANCHOLIA DI  LARS VON TRIER, PINA DI WIM WENDERS, e MIDNIGHT IN PARIS, DI WOODY ALLEN;
-IL LIBRO "LA CIVILTA' DELL' EMPATIA", DI JEREMY RIFKIN;

-"IL MONDO DI PERICLE", DI LUCIANO CANFORA;

-"IO E DIO", DI VITO MANCUSO.

Ci riserviamo di ritornare fra breve su questi temi.










RIPARTIRE DA ZERO NEL SINDACALISMO EUROPEO

Il ministro torinese Elsa Fornero piange nell'anticipare le grandi linee della politica sociale di Monti.
La presentazione a Torino, a cura del Centro Einstein di Studi Internazionali, del libro di Emilio Gabaglio, Il modello sociale europeo e la Confederazione Europea dei Sindacati ci offre un'opportunità per svolgere, in questo momento di profonda trasformazione dell' Europa, una riflessione di lungo periodo su ciò che il sindacalismo rappresenta e può rappresentare per l' identità europea.
Le lacrime del ministro Fornero nel momento in cui il Governo Italiano

1.Breve storia del sindacalismo europeo.

Il carattere partecipativo è un tratto comune delle società più antiche, siano esse la democrazia di villaggio africana, oppure la "democrazia militare" dei popoli dei kurgan. E, tuttavia, l'Europa è, fra tutte le grandi civiltà, quella che più a lungo ha conservato,  e in modo coerente ,questo carattere originario,come  per esempio nelle poleis, nelle federazioni tribali del "Barbaricum", nelle comunità monastiche, nei collegia, nelle confraternite, nelle corporazioni, nei Comuni,  nelle repubbliche aristocratiche.

Quando, con le Rivoluzioni americana e francese, fa la sua comparsa la democrazia rappresentativa, la reazione fu ampia e articolata: dai Federalisti al Compagnonnage, dal Socialismo della Cattedra alla concezione istituzionale del diritto.

Il sindacalismo è un fenomeno specificatamente europeo, che ha pochi riscontri nel resto del mondo.

Esso esprime una forma di reazione all'avversione, propria della cultura liberale ottocentesca, alle antiche forme di democrazia partecipativa.

Agli attacchi, contro le antiche forme di rappresentanza, lanciati dalle monarchie assolute e dalla Rivoluzione francese (Decereto di Colleret Collet e Legge Le Chapelier), rispondono le rivolte luddiste in Inghilterra, i "movimenti sociali in Francia", studiati dal Barone Von Stein, il "socialismo della cattedra", l'"Organische Gedachte" dei Calvinisti olandesi di Abraham Kujper..

Lassalle organizzarà , nella Germania bismrckiana, il Partito Socialdemocratico come un esercito, rispondendo, così, all' appello del Kaiser ai "Soldaten der Arbeit".

E' la nascita della legislazione del lavoro, con la Gewerbeordnung del Norddeutscher Bund.

Il tradeunionismo britannico risponde alla Rivoluzione industriale inglese e si afferma nonostante la "spada di Damocle" della criminalizzazione, in base a cui l' associazionismo operaio viene equiparato a un "complotto" contro il Regno ("conspiracy").

Jean Sorel  sarà  il primo a interpretare il sindacalismo come una rivincita dell'uomo naturale, il lavoratore, contro le costrizioni intellettuali del perbenismo borghese, vedendo egli, nello Sciopero Generale, il nuovo mito, capace di ripristinare lo spirito eroico.

La Rivoluzione bolscevica ridarà slancio al massimalismo socialista, che troverà, in Antonio Gramsci, un teorico originale, che riuscirà brillantemente a conciliare la ricerca di nuove élites, tipica della "cultura alta" della prima metà del Novecento, con l'emergere della classe operaia.

L'occupazione del Lingotto costituisce il primo esempio di realizzazione pratica del mito sorelliano dello Sciopero Generale. E, tuttavia, non sarà Gramsci, ma Mussolini, a raccogliere quanto seminato dal Sindacalismo Rivoluzionario. In realtà, in esito agli eventi della Rivoluzione d' Ottobre, il sindacalismo rivoluzionario cominciava giù da allora a disertare l'alveo marxista, andando alla ricerca, sui più svariati lidi intellettuali, di una teoria che lo portasse al di fuori delle secche del burocratismo statalista. Intanto, è D'Annunzio a creare, con la Repubblica del Quarnaro, il primo esperimento di Stato sindacale del lavoro, retto dalla prima costituzione sociale della storia, la Carta del Quarnaro. 

 Un altro tentativo di sintesi sarà esperito da Gobetti, che, sempre nella Torino dell' occupazione delle fabbriche, concepisce la rivoluzione degli operai come la nuova Rivoluzione Liberale, capace di realizzare un Ordine Nuovo.

Sul piano europeo, Ernst Juenger, un eccezionale letterato che riesce in ogni momento a incarnare  plasticamente nelle sue opere i pensieri dominanti degli Europei, porta a termine la prima parte della sua trilogia sulla modernità europea, "Der Arbeiter", in cui questo nuovo stereotipo, tradotto come l'"operaio", configura il nuovo "tipo di uomo" dominante  sulla scena sociale europea,dominata dalla grande industria e dagli Stati Nazionali del Lavoro.

Sotto questa categoria, Juenger sussume tutti gli Stati autoritari del suo tempo, aventi, come loro caratteristica comune, il fatto di conferire un ruolo centrale al "lavoratore". E' l'ora dei "consigli degli operai, dei contadini e dei soldati"in Unione Sovietica, delle "Carte del Lavoro"nei paesi fascisti, degli "Accordi Fondamentali" in Scandinavia.

Anche la dottrina politica e economica attribuisce la massima importanza al fattore sindacale. L'Enciclica "Rerum Novarum", partendo da un' osservazione di Tocqueville , sul ruolo dei corpi intermedi nella lotta contro l'omologazione modernistica, apre la strada ad un corporativismo cattolico.

Corporativismo che era nell' aria in tutta Europa, e trova ler proprie maggiori manifestazioni nel corporativismo fascista (italiano, spagnolo e portoghese), ma anche nei tentativi inglesi e austriaci di contrapposizione tanto al liberalismo, quanto al fascismo che al comunismo. Un fenomeno noto come "Guilds Socialism".

2.La Democrazia Partecipativa del Lavoro come elemento fondante dell' Integrazione Europea.
 
I progetti di nuova sistemazione dell' Europa  dopo la Seconda Guerra Mondiale continuano  ad attribuire un ruolo centrale all' autoorganizzazione dei lavoratori.Ciò che è particolarmente impressionante è la consonanza fra i progetti elaborati dai movimenti politici più diversi, dalla Carta di Verona del fascismo repubblicano, ai progetti di costituzione europea del comandante partigiano Duccio Galimberti, al Manifesto di Ventotene del Movimento Federalista Europeo, ai nuovi ordinamenti dati all' Olanda e alla Jugoslavia dopo la fine del conflitto.

Negli Anni Cinquanta si elaborano, come conseguenze, forse inconsapevoli e non volute, di tutte queste tradizioni, i più compiuti esempi di ruolo centrale del sindacalismo, che si siano realizzati nel corso della storia. 

Parliamo qui, innanzitutto, del "Modell Deutschland", il quale, a nostro avviso, realizza in gran parte, senza saperlo, per l'effetto provvidenziale dell' "eterogenesi dei fini",  il massimo livello diattualizzazione storica dell' ideale europeo di partecipazione del mondo del lavoro alla gestione dello Stato e dell' economia.

Non è, questo, né il luogo, né il momento, per sviscerare logiche, origini, storia, caatteristiche, realtà e prospettive del modello tedesco.WE, tuttavia, non possiamo non tratteggiarne almeno qualche puntyo fondamentale. Elementi caratterizzanti che a noi parte di individuare nei seguenti aspetti:

-rifiuto della dittatura del PIL e privilegiamento della stabilità;

-eliminazione fattuale, anche se tacita, dello "spirito capitalistico", attraverso un'originale "governance d' impresa, che associa dinastie industriali e sindacalismo, Stato centrale e Regioni, finanza locale e internazionale;

-rivalutazione della dignità delle singole e specifiche professionalità, a cominciare da quella operaia, rivalutata attraverso una formazione di tipo scolastico, un riconoscimento  ufficiale pubblico e un ruolo di codeterminazione delle scelte aziendali.

Il "Modell Deutschland" ( "Stabilitaet/Foederalismus/Hausbank/Stiftungen/Betriebsverfassung/Berufsausbildung) costituisce l'elemento trainante di un'area centro-settentrionale dell' Europa (Francia, Paesi alpini, Benelux, Scandinavia), i quali, grazie alle misconosciute virtù di questo modello assolutamente in controtendenza, ha potuto prosperare in tutti questi decenni, trainando anche, perfino contro la loro volontà, gli altri Paesi d' Europa (come per esempio la Francia gaullista e l' Italia dello Statuto dei Lavortatori).Si potrebbe perfino, a nostro avviso, scrivere una storia sociale dell' Europa basata sull' ininterrotta lotta di questo modello sociale contro il "modello sociale occidentale".

La stessa "costituzione materiale" dell' Europa è rimasta, in ultima  analisi, profondamente influenzata da quest' eredità.

Basti pensare al dialogo sociale europeo e alle direttive sulla partecipazione dei lavoratori.

E, tuttavia, proprio questa coessenzialità fa sì che la costruzione europea soffra di tutte le debolezze del modello sociale europeo.

Innanzitutto, debolezze culturali e psicologiche, che derivano dall' avere accettato una "dittatura culturale" di una virtuale "Europa Occidentale", che non rende giustizia a quell'esigenza di "centralità", da cui nasce la stessa integrazione europea .

Per esempio, una certa vergogna nel riconoscere le proprie origini, come accadeva già a Toennies e a Gramsci. Per esempio, nel "mettere il silenziatore" ad aspetti fondamentali della propria storia, come è accaduto con Gobetti e Galimberti. Per esempio, nel privilegiare esperienze lontane, come è accaduto a egregi giuslavoristi come Treu e il compianto, ma anche un pò troppo beatificato, Biagi.

Poi, debolezze politiche nei confronti di tendenze, pur reali nel movimento dei lavoratori, ma non corrispondenti al suo filone fondamentale, come per esempio i diktat ideologici della Terza Internazionale e i finanziamenti occulti dell 'AFL-CIO.

Infine, del fatto che l' Europa, a partire, sotto certi aspetti, dagli stessi Padri Fondatori, si è concepita come intellettualmente dipendente dagli Stati Uniti. E questo ha certamente sminuito, e continua a sminuire, il ruolo, nel nostro Continente, del movimento dei lavoratori, il quale, sia detto chiaramente, in America non ha mai contato nulla.

E, certamente, se questa debolezza ha colpito, ovviamente, innanzitutto il Regno Unito, e, poi, l'Italia, essa non ha lasciato indenni, né la Penisola Iberica, né la Francia, né le stesse Europa Centrale e Orientale.

E'per questo che, nonostante  tutte le lodevoli premesse, in Europa, il movimento sindacale europeo continua a cumulare delle sconfitte. Gli intellettuali del "mainstream" vogliono convincerci che non ci sia nulla da fare, in quanto il modello tecnocratico del ceto medio avrebbe travolto, per obiettivi motivi di evoluzione tecnologica, il modello eroico del "lavoratore".

Noi non siamo d'accordo. 

L'Europa sta lottando, senza accorgersi, per difendere la propria identità contro le forze impersonali della globalizzazione. Tutte le forze che, insieme, costituiscono il "nocciolo duro" dell' Identità Europea sono chiamate a partecipare a questa lotta. Il sindacalismo europeo è una di queste forze.  Come per tutte le altre fiorze dell' Europa (intelligenzija, etnie, religioni, management, realtà locali, immigrati, giovani), essa potrà sopravvivere solamente, e nella misura in cui, esso si unirà alle altre forze che combattono per l'Europa. Le formali manifestazioni di solidarietà per l'ideale europeo sono inutili, perchè misconoscono che l'integrazione europea è una questione di lotta, una lotta di cui quella dei lavoratori è semplicemente una parte.

Un altro aspetto, sempre misconosciuto, ma che, oggi, dovrebbe essere valorizzato al 10%, almeno, e/o soprattutto, dai sindacati: nonostante settant'anni di "Germany bashing", di strumentale propaganda distruttiva contro la Germania, la Mitteleuropa e il suo sistema sindacale, sociale e politico, addirittura dopo 70 anni, la Germania sta vivendo ora, finalmente, il più fulgido momento della vittoria del proprio sistema socio-economico.

Paradossalmente, solo la Germania e i Paesi che condividono i suoi valori escono vittoriosi dalla crisi generalizzata del sistema socio-economico "occidentale", fondato su principi diametralmente opposti a quelli della Germania e della Mitteleuropa. Se non fossimo dominati da una cultura politicizzata, ciò dovrebbe, ovviamente, fare oggerto di un' approfondita riflessione. Cosa che, invece, non è.

Chiediamo, ovviamente, a tutti,e, fra gli altri, in primo luogo,ai sindacalisti, di prendere atto di quelle semplici, ma inequivocabili, realtà. Il che dovrebbe avere come conseguenza, innanzitutto, una chiara autocritica, da parte di coloro che hanno creduto nella rivoluzione comunista, e/o nell' autonomia della classe operaia sul modello del sindacalismo inglese, e/o nel sindacalismo democratico di tipo anglosassone. Tutti questi modelli culturali hanno portato alla sconfitta dei lavoratori europei. Costituisce, oggi, un vero e proprio obbligo morale dei sindacalisti  europei cambiare i loro paradigmi culturali, adottando quelli che possono dare forza alle loro lotte. Orbene, il solo paradigma che può aggiungere forze alle lotte dei sindacalisti europei è, oggi,  la lotta per l' integrazione, l'unità e la forza dell' Europa.

Occorre, ora, cominciare una battaglia culturale, sociale e politica, per rovesciare mezzo secolo di disgregazione della società europea, creando, con ciò,  una nuova cultura.

In campo economico e sociale, ciò significa, a nostro avviso, rovesciare l'idea di un sistema fondato sull' effimero ( Wall Street; la "contendibilità"; la flessibilità; il costo del lavoro), per passare alla stabilità e alla permanenza (l'Europa; le imprese per l' Europa e per il Territorio; la professionalità come baluardo della forza del Territorio nel mondo;  lavoratori ultra-qualificati, quali garanzia di imprese all' avanguardia mondiale).

3. Cosa dovrebbe  fare il movimento sindacale europeo.

Noi non stiamo certo dettando al movimento sindacale europeo le sue regole di condotta a causa di una nostra congenita megalomania, anche se siamo sempre stati, paradossalmente, sinacalisti, anche sem ancora paradossalmente, del management. Al contrario, ci vediamo costretti  a proporre una nostra "ricetta" per salvare il movimento sindacale europeo, perchè stiamo constatando, ogni giorno di più, che, se lasciato a se stesso, quest'ultimo, il quale costituisce una parte integrante ed essenziale delle forze di cui l' Europa può disporre, si sta avviando verso l'autodistruzione.

(i) Unirsi agli sforzi dei pochi, ma determinati, intellettuali europei,  che si battono per ridefinire la"Identità Europea";

(ii) Restituire ai lavoratori europei (ben più numerosi degli "operai"), l'orgoglio di costituire una parte integrante e essenziale della società europea ("ius activae civitatis");

(iii) Divenire la "punta di diamante" della lotta politica contro quest' Europa tecnocratica e globalizzata, per un'Europa della cultura, della partecipazione, della qualità della vita.

Come è possibile raggiungere un siffatto risultato?:

(i)non disdegnare di partecipare al dibattito fra gli Europeisti sul futuro del Modello Socio-Politico Europeo;

(ii)partecipare agli  sforzi di coordinamenrto fra le pià svariate  forze filo-europeiste, per portare avanti, nei più diversi ambienti sociali, una lotta vigorosa  di lungo periodo per un' Europa Una, Libera e Forte;

(iii) porre, al centro della Vostra (a nostro avviso, ancor sempre necessaria), battaglia, l'applicazione, in tutto il nostro Continente, dei principi che hanno reso  grandi e vittoriosi, la Germania in generale, e la Mitteleuropa in particolare: 

STABILITA', FEDERALISMO, COGESTIONE, AMBIENTALISMO !!!

 Il Movimento  Sindacale Europeo (nel quale, paradossalmente, ci identifichiamo), liberato, da un lato, dalle sue pastoie ideologiche, e, dall'altro, da una limitativa ottica economicistica, potrà tornare, a nostro avviso, a rappresentare la "punta di diamante" del Movimento Europeistico, solo nella misura in cui sappia accettare questa modesta proposta, di riconoscere le sue radici e LA  SUA MISSIONE.

Solo se la "Soziale Bewegung" di cui parlava von Stein saprà ritornare alle sue radici europee, l'Europa potrà conseguire il suo, sempre più agognato, obiettivo:un mondo e una società armonica, non ideologica, e prossima alla natura, in cui anche i "lavoratori" (cioè quasi tutti noi) possano trovare un loro "ubi consistam" (senza che nessuno imponga loro un progetto prefabbricato di "salvezza").

Solo  se  perseguiremo, con eroica determinazione, gli obiettivi quali sopra delineati, diverrà possibile ciò che è, oggi, sommamente necessario:che gli Europei, popolo diverso e ramificato quant'altri mai,  possa identificarsi con un progetto, individuale e collettivo, per tutti accettabile,senza dover  essere tutti schacciati dalle forze impersonali della Globalizzazione.

Solo in questo modo diverrà possibile che i nostri/le nostre intellettuali-lavoratori/lavoratrici , come per esempio il Ministro Fornero (vedi immagine), non debbano più vergognarsi (come ci vergogniamo, ahimé,  tutti) di questo mondo di cui noi non ci sentiamo, in verità, partecipi.


Noi siamo l'unica via di uscita delle Vostre contraddizioni. E'ovvio che non lo possiate accettare, visto che, su questo, avete basato le Vostre carriere. Però, la logica vuole che dovrete, prima o poi, volenti o nolenti, accettarlo.Per sopravvivere. Per dare una logica a quello chev



Ovviamente, tutto ciò si presta ad ogni forma di dibattito.


Noi, intellettuali europei, siamo pronti a questo confrnto. Attendiamo a piè fermo i sindacalisti.