Europe,
wake-up!
Europe,
reveille-toi!
Europa,
erwache!
Le febbrili trattative nella notte
fra l’8 e il 9 dicembre hanno finalmente portato ad un accordo sulla politica
fiscale comune dell' Europa, sulla messa a disposizione di ulteriori fondi per il sostegno
del debito sovrano europeo, sulla riduzione del tasso di interesse della Banca
Centrale Europea.
L’accordo, adottato da 26 Stati europei ,
anziché da 27, si riferisce in primo luogo ai Paesi dell’Eurozona, vale a dire quelli
che hanno un interesse primario alla soluzione della crisi.Come tale, esso è stato salutato con
sostanziale favore tanto negli ambienti politici, quanto dai mercati finanziari.
Certamente, l’accordo non è stato
sottoscritto dal Regno Unito e da altri Paesi non aderenti all’Euro. Inoltre, è
stato respinto in là nel tempo l’ulteriore proposta, fatta propria, tra
l’altro, anche dall’Italia, di introdurre fin da subito gli “Eurobonds”, vale a
dire obbligazioni parzialmente o totalmente europee garantite, parzialmente o totalmente,
dagli Stati membri e/o dalla Banca Centrale Europea.
Vi sono senz’altro vari aspetti
positivi, soprattutto per coloro che sostengono la cosiddetta “teoria del piano
inclinato”, vale a dire che il progressivo avanzamento dell’Europa verso una
federazione è un processo inevitabile ed automatico. E, in effetti, dopo
l’accordo di ieri, ci dovrà essere una modifica dei trattati, che sancirà una
cosiddetta “unione fiscale” fra i 17.
Dopo un certo periodo, verranno,
ovviamente, in discussione, finalmente, anche gli Eurobonds. E, siccome gli Eurobonds servono
a finanziare la spesa pubblica, l’Europa finirà per ingerirsi sempre più
pesantemente nella spesa pubblica, prima in modo indiretto (vale a dire
controllando il rispetto del rigore di bilancio), poi, più direttamente, vale a
dire promuovendo essa stessa nuovi investimenti coperti dagli Eurobonds. A quel
punto, si porrà il problema di una coerenza complessiva dei comportamenti
economici dell’Unione, il che porterà alla necessità di una complessiva
politica economica dell’Europa.
Ma neppure quest’ultima sarà alla
lunga possibile senza che una siffatta politica economica venga collegata e
connessa con altri tipi di politica, come, per esempio, quella estera e di
difesa, quella culturale, quella della ricerca scientifica, eccetera.
Dunque, tutto è bene ciò che finisce
bene? Siamo lontani dal crederlo.
I sostenitori della “teoria del piano
inclinato” partono dall’ipotesi, a nostro avviso totalmente infondata, che l’Unione
Europea, nella sua evoluzione, si trovi ad operare all’interno di un mondo
asettico e disincarnato, quello detto della “posthistoire”, nella quale non
esistano pressioni di gruppi di opinione e/o di interessi, di Stati, di
eserciti, di alleanze militari; ove non esistano diplomazie segrete, servizi segreti,
corruzione, conflitti, corse agli armamenti, eccetera.
Mentre l’Europa discute con tutto
comodo su come organizzare le sue politiche fiscali, in tutto il mondo i
conflitti culturali, ideologici, politici, spionistici, militari, eccetera, si
scatenano con rinnovata violenza.
I propositi pre-elettorali del
Presidente Obama, di trattare senza pregiudizi e da pari a pari con tutti i
poteri del mondo, ivi compresi quelli ostili, si sono arenati in un nulla di
fatto, e, anzi, si sono trasformati oramai in uno sforzo a tutto tondo non
solamente per mantenere, ma, addirittura, per intensificare, su tutti gli
schacchieri mondiali, la pressione americana volta ad imporre una presenza
sempre più forte della sua ideologia, dei suoi eserciti, delle sue imprese,
eccetera.Ad esempio: collocamento dei missili
antibalistici non solamente in Polonia, ma anche in Spagna, in Romania, in
Turchia, nel Mar Baltico e nel Mare di Barents; decisione di mantenere le
truppe in Afganistan fino al 2024 e di dislocare ex novo 2.500 uomini in
Australia, oltre che un altro numero non identificato in Africa.
Ovviamente, tutto ciò non ha mancato
di suscitare violente reazioni di segno opposto in tutti i Paesi interessati:
dal Pakistan, che ha minacciato di usare l’arma atomica contro gli Stati Uniti;
alla Russia, che ha messo in stato di allerta i missili dislocati a
Kaliningrad; alla Cina, che, non un “revirement” di 180°, ha dichiarato che i
suoi sforzi saranno in futuro concentrati prioritariamente alla messa in
efficienza dell’esercito e della flotta; all’Iran, che è riuscito a catturare
indenne un sofisticatissimo drone-spia americano ed ora si accinge a clonarlo.
Oltre a questi conflitti propriamente
"militari", tutte le principali aree del mondo sono attraversate da tensioni
politico-culturali senza precedenti: negli Stati Uniti si assiste per la prima
volta ad un movimento di contestazione che attacca i centri stessi del potere
economico; tutti gli Stati dell’America Latina hanno appena lanciato una nuova
organizzazione regionale senza gli Stati Uniti e senza il Canada; nel Medio
Oriente, la cosiddetta “primavera araba” è sfociata in un braccio di ferro,
sulla vecchia falsariga turca, fra maggioranze parlamentari islamiste e generali occidentalisti; in India, prosegue la guerriglia naxalita; in Russia, si assiste ad
un conflitto a più voci fra la piazza filo-occidentale e quella
ultranazionalista, fra Russia Unita e le opposizioni di estrema destra ed
estrema sinistra.
L’Europa non può tenersi fuori
all’infinito da queste tensioni, che rischiano, in ogni momento, di travolgerla.
Inoltre, la militarizzazione generale della vita sociale, con il controllo
elettronico di tutta la vita sociale (cfr., per ultimo, l’abolizione del
segreto bancario) rischiano di fare, anche dell’Europa, una “società di controllo
totale”, ove i conclamati ideali di libertà e di autonomia individuale si
stanno trasformando in una sfacciata mistificazione.
L’attuazione delle riforme economiche
dell’Europa ha bisogno del supporto finanziario dei BRICS, e, per questo, essa
non può tenere una politica ostile agli stessi. Di converso, gli Stati Uniti
continuano a richiedere ai Paesi Europei un sostegno, di uomini ma anche, e
soprattutto, finanziario e di mezzi, per continuare la loro costosissima
presenza militare in ogni angolo del globo. È particolarmente significativo, a questo proposito, che,
in un momento in cui l’Europa chiede selvaggi sacrifici a tutti i Paesi e a
tutte le classi sociali, si sia concordato il prolungamento della missione
afgana fino al 2024.Nel caso dell’Italia, il cui Primo
Ministro lamenta di non potere più pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti,
non è neppure stata discussa l’ipotesi di stralciare dal bilancio un ulteriore
investimento per la difesa di 23 miliardi di Euro, per la maggior parte
dedicato all’acquisto di obsoleti cacciabombardieri Lockheed F35, che, in America, si
vogliono oramai toglieredalla produzione.
Quanto sopra significa che, se
l’Europa non vuole fare la fine del classico "vaso di coccio in mezzo aui vasi di ferro", ha
bisogno, fin da subito, non solo di una sua politica fiscale, o anche solo di una
politica economica a tutto tondo, bensì di una politica globale a tutto tondo,
capace di definire gli obiettivi storici del nostro Continente, i suoi
specifici valori sociali, nuove strutture istituzionali in sostituzione della
farraginosa burocrazia europea, degli Stati membri e degli Enti locali, i suoi
rapporti con il resto del mondo.
Tutti ci risponderanno che ciò è oggi
irrealistico. E, tuttavia, se non ci incomincia tempestivamente a sviluppare
una concezione culturale dell’Europa, non si avrà mai una concezione politica
globale, che vada al di là degli attuali occasionalismo politico e tecnocrazia.
Anche i più convinti europeisti sono,
infatti, assurdamente convinti che già esista una chiara concezione della cultura
europea, che l’iter di evoluzione dell’Europa sia ineluttabilmente segnato e
che bastino dei bravi tecnici, e/o, al massimo, dei bravi tattici e
negoziatori, per eseguire al meglio il copione. Ci si dimentica che, su
questioni come i limiti della tecnica, il confronto militare mondiale, l’economia
sostenibile, il pluralismo culturale, occorre prendere decisioni epocali, che
richiedono classi dirigenti con una solidissima formazione culturale.
Ciò non è vero, oggi, per l’Europa
come non era vero all’inizio dell’Ottocento per gli Stati Nazionali.
Allora, sulla base delle esperienze
inglese, americana, francese e russa, alcuni isolati intellettuali europei
incominciarono a pensare all’esistenza di una “nazione culturale” tedesca,
italiana, polacca, yugoslava.
Dopo la sconfitta di Napoleone, alcune
sette cominciarono a coltivare l’idea delle nuove nazioni, e solo verso la metà
del secolo un certo numero di intellettuali di “mainstream” cominciano a
propagandare l’idea della creazione di uno stato nazionale.
Ma fu solamente nella seconda metà di
quel secolo che tali Stati si concretizzarono, anche se solo allora
cominciarono ad affrontare il compito immane dell’unità culturale.
La nascita della moderna nazione
italiana parte dalle osservazioni filosofiche di Alfieri, dalla poetica moderna
di Leopardi, dal culto degli eroi di Foscolo, dal cattolicesimo liberale di Manzoni,
e solo allora si manifesta nella Giovine Italia e nella Società nazionale, e
solo alla fine nei moti carbonari e nelle Guerre di Indipendenza.Così, l’idea di una Kulturnation nasce
innanzitutto con il Teatro Nazionale Tedesco di Goethe e di Schiller, e con i
discorsi di Herder e di Fichte. Solo allora si traduce nella guerra di
liberazione nazionale e nella filosofia hegeliana della storia. E solo più
tardi ancora nel Parlamento di Francoforte e nello Zollverein. E solo nel 1887
nascerà il 2° Impero Tedesco.
Torniamo dunque alla necessità
innanzitutto di un lavoro culturale, paragonabile a quello degli Alfieri, dei
Leopardi, dei Foscolo, dei Manzoni, dei Goethe, degli Schiller, degli Hegel e
Heine, quelli che, delineando i tratti grandi, e, se vogliamo, universali,
danno un senso, per così dire concreto, alla necessità della sua unità e
indipendenza.
È paradossale che chi oggi esprime
con maggior convinzione la fiducia in una specifica identità europea, capace di
porsi in una posizione d’avanguardia rispetto al resto del mondo, sia oggi un
intellettuale americano, Jeremy Rifkin,
che parla, per la sua futura “società dell’empatia”, di un “Sogno Europeo”.
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