martedì 20 dicembre 2011

LAI TIS EVROPIS, XESIKOTHITE!



Europe, wake-up!
Europe, reveille-toi!
Europa, erwache!

Le febbrili trattative nella notte fra l’8 e il 9 dicembre hanno finalmente portato ad un accordo sulla politica fiscale comune dell' Europa, sulla messa a disposizione di ulteriori fondi per il sostegno del debito sovrano europeo, sulla riduzione del tasso di interesse della Banca Centrale Europea.
L’accordo, adottato da 26  Stati europei , anziché da 27, si riferisce in primo luogo ai Paesi dell’Eurozona, vale a dire quelli che hanno un interesse primario alla soluzione della crisi.Come tale, esso è stato salutato con sostanziale favore tanto negli ambienti politici, quanto dai mercati finanziari.
Certamente, l’accordo non è stato sottoscritto dal Regno Unito e da altri Paesi non aderenti all’Euro. Inoltre, è stato respinto in là nel tempo l’ulteriore proposta, fatta propria, tra l’altro, anche dall’Italia, di introdurre fin da subito gli “Eurobonds”, vale a dire obbligazioni parzialmente o totalmente europee garantite, parzialmente o totalmente, dagli Stati membri e/o dalla Banca Centrale Europea.
Vi sono senz’altro vari aspetti positivi, soprattutto per coloro che sostengono la cosiddetta “teoria del piano inclinato”, vale a dire che il progressivo avanzamento dell’Europa verso una federazione è un processo inevitabile ed automatico. E, in effetti, dopo l’accordo di ieri, ci dovrà essere una modifica dei trattati, che sancirà una cosiddetta “unione fiscale” fra i 17.
Dopo un certo periodo, verranno, ovviamente, in discussione, finalmente,  anche gli Eurobonds. E, siccome gli Eurobonds servono a finanziare la spesa pubblica, l’Europa finirà per ingerirsi sempre più pesantemente nella spesa pubblica, prima in modo indiretto (vale a dire controllando il rispetto del rigore di bilancio), poi, più direttamente, vale a dire promuovendo essa stessa nuovi investimenti coperti dagli Eurobonds. A quel punto, si porrà il problema di una coerenza complessiva dei comportamenti economici dell’Unione, il che porterà alla necessità di una complessiva politica economica dell’Europa.
Ma neppure quest’ultima sarà alla lunga possibile senza che una siffatta politica economica venga collegata e connessa con altri tipi di politica, come, per esempio, quella estera e di difesa, quella culturale, quella della ricerca scientifica, eccetera.
Dunque, tutto è bene ciò che finisce bene? Siamo lontani dal crederlo.
I sostenitori della “teoria del piano inclinato” partono dall’ipotesi, a nostro avviso totalmente infondata, che l’Unione Europea, nella sua evoluzione, si trovi ad operare all’interno di un mondo asettico e disincarnato, quello detto della “posthistoire”, nella quale non esistano pressioni di gruppi di opinione e/o di interessi, di Stati, di eserciti, di alleanze militari; ove non esistano diplomazie segrete, servizi segreti, corruzione, conflitti, corse agli armamenti, eccetera.
Mentre l’Europa discute con tutto comodo su come organizzare le sue politiche fiscali, in tutto il mondo i conflitti culturali, ideologici, politici, spionistici, militari, eccetera, si scatenano con rinnovata violenza.
I propositi pre-elettorali del Presidente Obama, di trattare senza pregiudizi e da pari a pari con tutti i poteri del mondo, ivi compresi quelli ostili, si sono arenati in un nulla di fatto, e, anzi, si sono trasformati oramai in uno sforzo a tutto tondo non solamente per mantenere, ma, addirittura, per intensificare, su tutti gli schacchieri mondiali, la pressione americana volta ad imporre una presenza sempre più forte della sua ideologia, dei suoi eserciti, delle sue imprese, eccetera.Ad esempio: collocamento dei missili antibalistici non solamente in Polonia, ma anche in Spagna, in Romania, in Turchia, nel Mar Baltico e nel Mare di Barents; decisione di mantenere le truppe in Afganistan fino al 2024 e di dislocare ex novo 2.500 uomini in Australia, oltre che un altro numero non identificato in Africa.
Ovviamente, tutto ciò non ha mancato di suscitare violente reazioni di segno opposto in tutti i Paesi interessati: dal Pakistan, che ha minacciato di usare l’arma atomica contro gli Stati Uniti; alla Russia, che ha messo in stato di allerta i missili dislocati a Kaliningrad; alla Cina, che, non un “revirement” di 180°, ha dichiarato che i suoi sforzi saranno in futuro concentrati prioritariamente alla messa in efficienza dell’esercito e della flotta; all’Iran, che è riuscito a catturare indenne un sofisticatissimo drone-spia americano ed ora si accinge a clonarlo.
Oltre a questi conflitti propriamente "militari", tutte le principali aree del mondo sono attraversate da tensioni politico-culturali senza precedenti: negli Stati Uniti si assiste per la prima volta ad un movimento di contestazione che attacca i centri stessi del potere economico; tutti gli Stati dell’America Latina hanno appena lanciato una nuova organizzazione regionale senza gli Stati Uniti e senza il Canada; nel Medio Oriente, la cosiddetta “primavera araba” è sfociata in un braccio di ferro, sulla vecchia falsariga turca, fra maggioranze parlamentari islamiste e generali  occidentalisti; in India, prosegue la guerriglia naxalita; in Russia, si assiste ad un conflitto a più voci fra la piazza filo-occidentale e quella ultranazionalista, fra Russia Unita e le opposizioni di estrema destra ed estrema sinistra.
L’Europa non può tenersi fuori all’infinito da queste tensioni, che rischiano, in ogni momento, di travolgerla. Inoltre, la militarizzazione generale della vita sociale, con il controllo elettronico di tutta la vita sociale (cfr., per ultimo, l’abolizione del segreto bancario) rischiano di fare, anche dell’Europa, una “società di controllo totale”, ove i conclamati ideali di libertà e di autonomia individuale si stanno trasformando in una sfacciata mistificazione.
L’attuazione delle riforme economiche dell’Europa ha bisogno del supporto finanziario dei BRICS, e, per questo, essa non può tenere una politica ostile agli stessi. Di converso, gli Stati Uniti continuano a richiedere ai Paesi Europei un sostegno, di uomini ma anche, e soprattutto, finanziario e di mezzi, per continuare la loro costosissima presenza militare in ogni angolo del globo. È particolarmente significativo, a questo proposito,  che, in un momento in cui l’Europa chiede selvaggi sacrifici a tutti i Paesi e a tutte le classi sociali, si sia concordato il prolungamento della missione afgana fino al 2024.Nel caso dell’Italia, il cui Primo Ministro lamenta di non potere più pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti, non è neppure stata discussa l’ipotesi di stralciare dal bilancio un ulteriore investimento per la difesa di 23 miliardi di Euro, per la maggior parte dedicato all’acquisto di obsoleti cacciabombardieri Lockheed F35, che, in America, si vogliono oramai toglieredalla produzione.
Quanto sopra significa che, se l’Europa non vuole fare la fine del classico  "vaso di coccio in mezzo aui vasi di ferro", ha bisogno, fin da subito, non solo di una sua politica fiscale, o anche solo  di una politica economica a tutto tondo, bensì di una politica globale a tutto tondo, capace di definire gli obiettivi storici del nostro Continente, i suoi specifici valori sociali, nuove strutture istituzionali in sostituzione della farraginosa burocrazia europea, degli Stati membri e degli Enti locali, i suoi rapporti con il resto del mondo.
Tutti ci risponderanno che ciò è oggi irrealistico. E, tuttavia, se non ci incomincia tempestivamente a sviluppare una concezione culturale dell’Europa, non si avrà mai una concezione politica globale, che vada al di là degli attuali occasionalismo politico e tecnocrazia.
Anche i più convinti europeisti sono, infatti, assurdamente convinti che già  esista una chiara concezione della cultura europea, che l’iter di evoluzione dell’Europa sia ineluttabilmente segnato e che bastino dei bravi tecnici, e/o, al massimo, dei bravi tattici e negoziatori, per eseguire al meglio il copione. Ci si dimentica che, su questioni come i limiti della tecnica, il confronto militare mondiale, l’economia sostenibile, il pluralismo culturale, occorre prendere decisioni epocali, che richiedono classi dirigenti con una solidissima formazione culturale.
Ciò non è vero, oggi, per l’Europa come non era vero all’inizio dell’Ottocento per gli Stati Nazionali.
Allora, sulla base delle esperienze inglese, americana, francese e russa, alcuni isolati intellettuali europei incominciarono a pensare all’esistenza di una “nazione culturale” tedesca, italiana, polacca, yugoslava.
Dopo la sconfitta di Napoleone, alcune sette cominciarono a coltivare l’idea delle nuove nazioni, e solo verso la metà del secolo un certo numero di intellettuali di “mainstream” cominciano a propagandare l’idea della creazione di uno stato nazionale.
Ma fu solamente nella seconda metà di quel secolo che tali Stati si concretizzarono, anche se solo allora cominciarono ad affrontare il compito immane dell’unità culturale.
La nascita della moderna nazione italiana parte dalle osservazioni filosofiche di Alfieri, dalla poetica moderna di Leopardi, dal culto degli eroi di Foscolo, dal cattolicesimo liberale di Manzoni, e solo allora si manifesta nella Giovine Italia e nella Società nazionale, e solo alla fine nei moti carbonari e nelle Guerre di Indipendenza.Così, l’idea di una Kulturnation nasce innanzitutto con il Teatro Nazionale Tedesco di Goethe e di Schiller, e con i discorsi di Herder e di Fichte. Solo allora si traduce nella guerra di liberazione nazionale e nella filosofia hegeliana della storia. E solo più tardi ancora nel Parlamento di Francoforte e nello Zollverein. E solo nel 1887 nascerà il 2° Impero Tedesco.
Torniamo dunque alla necessità innanzitutto di un lavoro culturale, paragonabile a quello degli Alfieri, dei Leopardi, dei Foscolo, dei Manzoni, dei Goethe, degli Schiller, degli Hegel e Heine, quelli che, delineando i tratti grandi, e, se vogliamo, universali, danno un senso, per così dire concreto, alla necessità della sua unità e indipendenza.
È paradossale che chi oggi esprime con maggior convinzione la fiducia in una specifica identità europea, capace di porsi in una posizione d’avanguardia rispetto al resto del mondo, sia oggi un intellettuale americano, Jeremy Rifkin, che parla, per la sua futura “società dell’empatia”, di un “Sogno Europeo”.



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