lunedì 12 gennaio 2009

Diritti umani e pluralità culturale. In memoria di Samuel Huntington.


Identità Europea starts up its debate with readers about “universal” and “local” values and rights.
Identità Europea amorce un débat avec ses lecteurs à propos de valeurs et droits “universels” et “locaux”.
Identità Europea fängt mit seinen Lesern eine Debatte über “universelle” und “lokale” Werte.

Intervenendo in questo blog, Mario Gattiglia ha rilevato che l’idea della pluralità delle culture costituisce un’acquisizione della cultura moderna (personalmente, direi, piuttosto, postmoderna). Più precisamente, la teorizzazione a livello filosofico di tale concetto è legata, a mio avviso, all’ermeneutica. Tuttavia, la consapevolezza di tale pluralità era fortissima in autori antichi, come Erodoto, e più recenti, come Pascal e Goethe.
Visto l’interesse per questo tema, vorrei approfittare dell’intervento di Gattiglia per allargare il mio pensiero.
Già il Corano sanciva il diritto alla pluralità culturale fra le religioni politeistiche, ma sulla base di una gerarchia. Hegel costruì una filosofia della storia nella quale la pluralità delle culture veniva codificata, ma si manteneva una gerarchia fra le stesse, fondata sulla missione dei popoli germanici e protestanti. Altri, come Schopenhauer e Guénon, per non parlare di Aurobindo, vedevano, invece, una superiorità dell’India. Spengler e Toynbee, infine, non attribuiscono alla pluralità un significato gerarchico e concordano sul fatto che l’egemonia occidentale non sia destinata a durare in eterno.
Ma se vi è una pluralità di culture, nello spazio oltre che nel tempo, i valori cambiano. Abbiamo il diritto di decretare che i valori delle altre culture sono inferiori a quelli della nostra?
Secondo un’interessante tesi del recentemente scomparso Samuel Huntington, vi sarebbero due categorie di valori, quelli “spessi”, comuni a tutte le maggiori civiltà, e quelli “sottili”, comuni solo a determinati “culture”. Huntington, che ha una così cattiva fama a causa del titolo provocatorio di un suo libro (“Scontro di civiltà”), è, in realtà, uno dei più equilibrati politologi americani. Egli, partendo dalle idee di Spengler e di Toynbee sulla pluralità delle culture, e da uno studio lucido dell’ identità americana, prende atto del fatto che uno scontro fra la cultura “occidentale” e le altre culture è in corso e si sforza di minimizzarne i danni, anche se non si sente di escludere esiti catastrofici.
Secondo la mia personale lettura, i valori “spessi” sono quelli propri delle ere protostoriche, in cui la società aveva carattere cetuale, e vigeva l’idea della “gerarchia simbolica”, sicché gli uomini dovevano adeguarsi ad archetipi di carattere rituale. Benché in tali epoche non esistesse la idea di “diritti universali”, tuttavia erano diffusi principi universali necessari a salvaguardare il legame sociale, come, per esempio, “neminem laedere” (non danneggiare nessuno); “suum cuique tribuere” (dare a ciascuno il suo), onora gli dei, le autorità, i genitori, aiuta il prossimo, vivi sanamente, ecc...Tali valori sono “universali” nel senso che sono comuni all’enorme maggioranza dei popoli, perché l’enorme maggioranza dei popoli è pervenuta almeno fino all’epoca protostorica.
Altri valori, come, da un lato, quello dell’operosità, tipico dei popoli occidentali, o quello del rispetto dei riti, tipico dei popoli orientali, non sono comuni, perché, in epoca storica, questi popoli hanno subito evoluzioni diverse, che hanno ispirato valori “sottili” diversi.
Il diritto deve rispettare le diverse identità dei popoli. Non tutti gli istituti giuridici (p.es, l’illimitata libertà economica, oppure i matrimoni gay, oppure la poligamia) possono risultare applicabili a tutti i popoli. Tuttavia, vi è una soglia minima di diritti, i “diritti universali”, che vengono riconosciuti come tali da tutte le culture: diritto alla vita, all’ integrità fisica, morale ed economica, diritto alla differenza culturale, alla libertà di coscienza, di culto, di pensiero, di associazione...Questi sono i valori fondamentali che dovrebbero essere contenuti nei documenti internazionali e fatti valere in modo assoluto in tutto il mondo da un’apposita giustizia internazionale.
Quei “diritti dell’ uomo” che derivano dai “valori sottili” di una determinata area geografica, dovrebbero dare luogo ad elenchi di diritti fondamentali specifici di quell’area geografica.
Questo tipo di suddivisione dovrebbe permettere di garantire un’effettiva applicazione dei diritti. Infatti, l’impossibilità garantire (o imporre) certi diritti in tutto il mondo fa perdere ogni fiducia nel sistema nel suo complesso.
Ma valori concepiti secondo lo schema qui presentato sono valori “fondati” o “relativisti”? Per me, personalmente, la domanda non ha senso. In una prospettiva ermeneutica, il “fondamento” di ogni cosa sta nell’interpretazione di una tradizione. Orbene, nella misura in cui un valore discende da una interpretazione in buona fede, esso è “fondato”, in quanto trova la propria base nell’unico nesso strutturale “fondato” dell’ esperienza umana.
La concezione medievale di ermeneutica (mishnà, ijtihàd), comune alle tre religioni abramitiche, convergeva in quest’idea di ricerca comune della verità delle tre Religioni del Libro. In un mondo ancor più globalizzato di quanto già non fosse quello medievale, si richiederebbe, a nostro avviso, da un lato, di valutare come applicare questo concetto a tutte le aree del mondo, e, dall’ altro, di effettuare analisi specifiche per aree come quelle nord e sud-amercana, quella del Sud del pianeta, quella indica, quella confuciana, ecc...

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