lunedì 26 gennaio 2009
La Fine delle Egemonie. Una preview.
Identità continentali
La realtà è molto più complessa.
In un mondo sempre più globalizzato, le identità acquistano un’importanza così grande proprio perché le persone hanno sempre più l’impressione, in questo colossale pianeta-alveare, di non contare più nulla, di essere divenute cellule passive di un gigantesco organismo di cui seguono inconsciamente le mosse per abitudine, per conformismo, per necessità economica, per ideologia, per propaganda.
Le persone hanno bisogno di sentirsi se stesse, di contare, di fare gruppo per identificarsi, per contare di più, per influenzare il corso delle cose.
L’identità, come strumento di organizzazione del consenso e come strumento di azione sul mondo, si sostituisce a precedenti forme sempre più indebolite: le religioni, gli Stati, le nazioni, i partiti, le imprese, i sindacati, le famiglie.
L’identità locale costruisce i movimenti sociali dal basso; l’identità regionale facilita iniziative comuni “euroregionali”, un’“identità europea”, non espressa né formalizzata, permette di affrontare con saggezza situazioni che le istituzioni in se stesse non sono in grado di fronteggiare: immigrazioni, rapporti con l’Europa Orientale. Senza le identità continentali, il sistema degli organismi internazionali rischia il collasso.
Un federalismo mondiale che vedesse come protagonisti le Americhe, l’Europa, la Cina, l’India, l’Africa, non potrebbe prescindere dalle identità continentali. Se non vi fossero siffatte identità, come sarebbe possibile che complessi di popoli così eterogenei, come, per esempio, quelli africani, possano trovare posizioni comuni sui grandi temi del mondo?
Ciò lo si vede benissimo in India, dove i suoi 27 Stati, le sue 250 lingue, le sue diverse religioni, riescono a convivere (seppure con grandi tensioni) e ad esprimere una posizione unitaria nel mondo, solo perché hanno punti di riferimento comuni che permettono il dialogo, ed, al limite, lo scontro.
Anche il Nord America e la Cina hanno una loro identità abbastanza chiara e marcata, mentre Sudamerica, Africa e Medio Oriente stanno ancora ricercando tale identità.
Una volta che tali identità saranno consolidate, ciò provocherà nuovi scontri?
Probabilmente sì, ma non certo maggiori di quelli che già oggi vediamo all’opera per effetto del tentativo, posto in essere dalla “sola superpotenza”, di affermare soluzioni accettabili solo per essa, negando e schiacciando le identità degli altri Continenti.
Un’altra domanda che molti si pongono è se l’affermarsi delle nuove identità continentali non comporti il rischio della persecuzione di quelle parti di tali Continenti che non si conformino alle identità dominanti (per esempio, quella sudamericana nelle Americhe, quella islamica in India, quella tibetana in Cina).
Certamente, questo sarà un problema del futuro, che si potrà risolvere solamente nella misura in cui tutte queste identità si concepiscano come identità plurali, ed il potere sia gestito anche al loro interno in modo multipolare e multiculturale.
Perciò, salutiamo con molto favore gli sforzi dell’Unesco per la ratifica della Convenzione per la tutela del Diritto della differenza culturale, con la quale si tenta di dare un quadro a questa materia.
martedì 20 gennaio 2009
Gli accordi per Georgia e Ucraina: nuovo modello di integrazione eurasiatica.
mercoledì 14 gennaio 2009
"La fine delle egemonie" di Antonio Mosconi. La presentazione del nuovo libro il 16 gennaio 2009
Gli eventi che si stanno susseguendo negli ultimi mesi a livello mondiale, in particolare la crisi finanziaria mondiale, convergono nell’indicare che l’attuale assetto, innanzitutto economico, ma anche politico, culturale e militare, del mondo, è esposto ad una profonda mutazione, i cui contorni non sono ancora pienamente definiti e alla cui individuazione tutti gli attori, culturali, politici e sociali, possono contribuire a fornire un contributo.
Alpina, nata precisamente con ambizioni di stimolo alla ridefinizione dei ruoli fra cultura ed economia, a livello cittadino, euroregionale ed europeo, è lieta di presentare un’opera che affronta con tempestività, completezza ed efficacia, questa complessa problematica, partendo dal suo aspetto più evidente -l’economia- per giungere a formulare una proposta globale ambiziosa, ma, nonostante le apparenze, realistica: la Federazione Mondiale.
Il libro di Antonio Mosconi, La fine delle Egemonie, Unione Europea e Federalismo Mondiale, sarà presentato il 16 gennaio presso la sede di Alpina, in Via P. Giuria n. 6.
Come sempre, questo tipo di incontri fornirà l’occasione, ai nostri lettori e sostenitori, di intrattenere uno scambio diretto di opinioni con l’autore sull’argomento in oggetto, nonché di avviare anche un dibattito fra gli intervenuti, che ci auguriamo non si fermi a questa serata, ma continui anche attraverso i blog Identità Europea e Tamièia, nonché attraverso le communities sul web.
lunedì 12 gennaio 2009
Le delusioni della politica e della cultura
Potrebbe sembrare a molti che questo blog, seppure dedicato a temi apparentemente molto alti ed impegnativi, sia, alla fine, molto lontano dalle preoccupazioni della maggior parte dei cittadini.
I quali, anche i più seri e combattivi, non sembrano, in questi giorni, prendere di petto questioni come il federalismo mondiale, la diversità culturale, e, tanto meno, l’identità europea, perchè alle prese, vuoi con conseguenze della crisi economica, vuoi con un sempre più generalizzato disgusto per la politica e per la cultura.
Ci siamo preoccupati in altra sede della crisi economica.
Qui ci resta da dire che la crisi della politica viene vista da una minoranza come la scivolata “cesaristica” di un sistema politico gestito sempre più in modo aziendalistico, e sempre meno in base a programmi e principi.
Ma anche la maggioranza, indipendentemente dal partito per cui essa vota, è sempre più disgustata da politici privi di idee e di programmi, attenti solamente ad esaltare i propri meriti ed a diminuire quelli degli altri.
I politici appaiono tutti sempre più uguali nel loro grigiore.
Ma anche coloro che, più che della politica, hanno a cuore le sorti della cultura, non cessano di lamentare la mancanza di qualità e competenza da parte dei dirigenti dell’economia, l’indifferenza dei cittadini, la crescente incultura dei giovani.
Siamo sicuri che queste lamentele che sentiamo ogni giorno siano del tutto slegate dai grandi temi, come l’identità europea, il federalismo mondiale e la diversità culturale?
Non ci rendiamo conto che proprio l’avvento di una società come quella in cui oggi viviamo è stato profetizzato, e inutilmente scongiurato, dalla maggior parte dei grandi intellettuali europei, che, a nostro avviso, costituiscono parte integrante dell’identità europea?
Di Goethe, che già nel Werther esprimeva, in un grande affresco lo scontro fra l’economia e la cultura; di Kierkegaard, che denunziava lo svuotamento del Cristianesimo, ridotto a strumento di benessere mondano; di Nietzsche, che descriveva l’“ultimo uomo”; di Heidegger, che denunziava la perdita del senso dell’Essere, e così via...
Si potrà uscire dall’indifferenza della cultura, dalla stagnazione politica, e, perfino, dalla crisi economica, senza andarsi a rileggere quei classici che costituiscono l’identità europea, senza fare concreti sforzi, fuori dalla moderna omologazione, nel senso di una sana differenza di gusti e di culture, e senza riportare al centro della politica un serio ed effettivo dibattito sui grandi problemi, che, a questo punto, non possono essere solamente più domestici, bensì debbono elevarsi al livello europeo e mondiale?
Diritti umani e pluralità culturale. In memoria di Samuel Huntington.
Visto l’interesse per questo tema, vorrei approfittare dell’intervento di Gattiglia per allargare il mio pensiero.
Già il Corano sanciva il diritto alla pluralità culturale fra le religioni politeistiche, ma sulla base di una gerarchia. Hegel costruì una filosofia della storia nella quale la pluralità delle culture veniva codificata, ma si manteneva una gerarchia fra le stesse, fondata sulla missione dei popoli germanici e protestanti. Altri, come Schopenhauer e Guénon, per non parlare di Aurobindo, vedevano, invece, una superiorità dell’India. Spengler e Toynbee, infine, non attribuiscono alla pluralità un significato gerarchico e concordano sul fatto che l’egemonia occidentale non sia destinata a durare in eterno.
Ma se vi è una pluralità di culture, nello spazio oltre che nel tempo, i valori cambiano. Abbiamo il diritto di decretare che i valori delle altre culture sono inferiori a quelli della nostra?
Secondo un’interessante tesi del recentemente scomparso Samuel Huntington, vi sarebbero due categorie di valori, quelli “spessi”, comuni a tutte le maggiori civiltà, e quelli “sottili”, comuni solo a determinati “culture”. Huntington, che ha una così cattiva fama a causa del titolo provocatorio di un suo libro (“Scontro di civiltà”), è, in realtà, uno dei più equilibrati politologi americani. Egli, partendo dalle idee di Spengler e di Toynbee sulla pluralità delle culture, e da uno studio lucido dell’ identità americana, prende atto del fatto che uno scontro fra la cultura “occidentale” e le altre culture è in corso e si sforza di minimizzarne i danni, anche se non si sente di escludere esiti catastrofici.
Secondo la mia personale lettura, i valori “spessi” sono quelli propri delle ere protostoriche, in cui la società aveva carattere cetuale, e vigeva l’idea della “gerarchia simbolica”, sicché gli uomini dovevano adeguarsi ad archetipi di carattere rituale. Benché in tali epoche non esistesse la idea di “diritti universali”, tuttavia erano diffusi principi universali necessari a salvaguardare il legame sociale, come, per esempio, “neminem laedere” (non danneggiare nessuno); “suum cuique tribuere” (dare a ciascuno il suo), onora gli dei, le autorità, i genitori, aiuta il prossimo, vivi sanamente, ecc...Tali valori sono “universali” nel senso che sono comuni all’enorme maggioranza dei popoli, perché l’enorme maggioranza dei popoli è pervenuta almeno fino all’epoca protostorica.
Altri valori, come, da un lato, quello dell’operosità, tipico dei popoli occidentali, o quello del rispetto dei riti, tipico dei popoli orientali, non sono comuni, perché, in epoca storica, questi popoli hanno subito evoluzioni diverse, che hanno ispirato valori “sottili” diversi.
Il diritto deve rispettare le diverse identità dei popoli. Non tutti gli istituti giuridici (p.es, l’illimitata libertà economica, oppure i matrimoni gay, oppure la poligamia) possono risultare applicabili a tutti i popoli. Tuttavia, vi è una soglia minima di diritti, i “diritti universali”, che vengono riconosciuti come tali da tutte le culture: diritto alla vita, all’ integrità fisica, morale ed economica, diritto alla differenza culturale, alla libertà di coscienza, di culto, di pensiero, di associazione...Questi sono i valori fondamentali che dovrebbero essere contenuti nei documenti internazionali e fatti valere in modo assoluto in tutto il mondo da un’apposita giustizia internazionale.
Quei “diritti dell’ uomo” che derivano dai “valori sottili” di una determinata area geografica, dovrebbero dare luogo ad elenchi di diritti fondamentali specifici di quell’area geografica.
Questo tipo di suddivisione dovrebbe permettere di garantire un’effettiva applicazione dei diritti. Infatti, l’impossibilità garantire (o imporre) certi diritti in tutto il mondo fa perdere ogni fiducia nel sistema nel suo complesso.
Ma valori concepiti secondo lo schema qui presentato sono valori “fondati” o “relativisti”? Per me, personalmente, la domanda non ha senso. In una prospettiva ermeneutica, il “fondamento” di ogni cosa sta nell’interpretazione di una tradizione. Orbene, nella misura in cui un valore discende da una interpretazione in buona fede, esso è “fondato”, in quanto trova la propria base nell’unico nesso strutturale “fondato” dell’ esperienza umana.
La concezione medievale di ermeneutica (mishnà, ijtihàd), comune alle tre religioni abramitiche, convergeva in quest’idea di ricerca comune della verità delle tre Religioni del Libro. In un mondo ancor più globalizzato di quanto già non fosse quello medievale, si richiederebbe, a nostro avviso, da un lato, di valutare come applicare questo concetto a tutte le aree del mondo, e, dall’ altro, di effettuare analisi specifiche per aree come quelle nord e sud-amercana, quella del Sud del pianeta, quella indica, quella confuciana, ecc...
venerdì 9 gennaio 2009
Lavorare in Europa sui Diritti Umani
Working on implementation of Human Rights: Pope and President express critical news. Travailler les droits de l’homme: Le Pape et le Président expriment une position critique. Arbeiten für Menschenrechte: Papst und Präsident aüssern kritische Gesichtspunkte.
I Diritti dell’Uomo costituiscono, prima che una realtà, un problema, come si evince dall’eccellente opera recentemente pubblicata da Marcello Flores, e come confermato dalle prese di posizione delle massime autorità in occasione dei 60 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: il Papa ha sottolineato come tali diritti, senza un adeguato fondamento spirituale, rischino di essere svuotati, e il Presidente italiano ha fatto rilevare come, alla loro affermazione teorica, non corrisponda un’effettiva attuazione.
La posizione espressa dal Papa non si discosta da quella tradizionale della Chiesa cattolica, che i giuristi medievali avevano mutuato dal Diritto Romano, secondo il quale i diritti umani erano originari, anche se comprimibili nel corso della storia: vigeva il principio “in dubio pro libertate”, come aveva rilevato, per esempio, Monsignor De las Casas.
La critica papale si rivolge soprattutto contro la visione laicistica del diritto, e, quindi, anche dei diritti dell’uomo, secondo la quale il diritto, in quanto realtà umana, avrebbe un valore solamente “trascendentale”, cioè nella società e nella storia, e non, invece, “trascendente”, cioè assoluto, e, quindi, fuori della storia. Se i diritti umani sono “trascendentali”, essi possono essere cambiati, e, quindi, tali diritti non sono garantiti per sempre.
Con questa obiezione si tocca un punto molto delicato dell’intera dottrina dei diritti umani, che, da un lato, pretendono ad un valore assoluto, ma, dall’altro, si scontrano contro i due opposti vincoli, da un lato, della storicità, e, dall’altro, del loro carattere intrinsecamente “metafisico”, non fondabile su criteri che non siano fideistici. Quanto alla storicità, ricordiamo che nel Vecchio Testamento, libro sacro comune alle tre religioni monoteistiche, i diritti umani nel senso attuale del termine non venivano neppure presi in considerazione, mentre, al contrario, venivano esaltati, come volontà di Dio, lo sterminio dei pagani e degli eretici, il divieto della libertà religiosa e la schiavitù. La stessa proposizione dei Dieci Comandamenti (che, in quanto Doveri verso Dio, potrebbero essere il rovescio positivo dei Diritti Umani) è misteriosamente legata, nella vicenda del Vitello d’Oro, a un’orrenda strage ad opera di Mosè e dei sacerdoti.
Per ciò che riguarda il carattere fideistico, occorre ricordare che altre religioni, per esempio l’Islām, hanno visioni diverse dei diritti umani, derivate dall’interpretazione del loro “pacchetto” di libri sacri.
Quanto al grado di attuazione dei diritti umani, mentre diamo per scontato che essi non siano rispettati integralmente in nessun Paese, come rivelano i rapporti annuali di Amnesty International, possiamo affermare che essi non sono molto rispettati neppure in Occidente, e neppure in quell’Europa che pretende di essere alla guida in questa materia e che, con la Convenzione di Nizza, ha posto in essere il catalogo più esauriente di tali diritti. Ed è su questo, su ciò che accade in Europa, che dovremmo concentrarci, in quanto, da un lato, su esso possiamo operare effettivamente, e, dall’ altro, non può essere il sospetto che il nostro intervento sia motivato dalla semplice volontà di indebolire e omologare Paesi che consideriamo diversi od ostili. Infine, solo così l’Europa potrebbe pretendere quel ruolo di guida morale a cui aspira.
Basti pensare alle condizioni discriminatorie nei confronti dei migranti, con o senza documenti, e perfino cittadini comunitari; basti pensare al diniego del diritto alla differenza culturale ai cittadini europei di lingua e cultura russa, turca ed araba, che non possono usare ufficialmente le loro lingue, pur se parlate da un numero di cittadini europei superiore a quello di uno Stato membro di medie dimensioni, e, anzi, vengono spesso discriminati ed esclusi proprio con pretesti linguistici. Ricordiamo soprattutto l’attacco frontale, non solamente alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, lanciato in America dalla Presidenza Bush, ma estesosi a tutto l’Occidente, in concomitanza con il Patriot Act, che ha negato, tra l’altro, diritti sanciti da testi costituzionali di tutti i tempi e di tutti i paesi: il diritto alla Resistenza della Magna Charta, il diritto ad un equo processo sancito dall’Habeas Corpus, il diritto di eguaglianza sancito dalla Dichiarazione di Indipendenza americana, la Convenzione contro la tortura, il diritto alla Privacy, e tanti altri. Tali limitazioni ai diritti dell’uomo riconosciuti fin dai tempi antichi non sono ancora state sanate.
Crediamo che i tre problemi chiarezza di definizione, fondamento e concretezza nell’attuazione pratica, debbano andare di pari passo.
Il miglior modo di commemorare questo anniversario appare, dunque, quello di varare un energico programma di lavoro, che parta dalla riflessione filosofica e teologica, attraversi una rivisitazione del diritto europeo e costituzionale in concomitanza con la ratifica del Trattato di Roma e le discussioni sulla Costituzione Europea, per pervenire a precise azioni - legislative ed applicative - sul piano dei diritti “interni”.
Ci sembra che la già citata opera di Flores costituisca un buon punto di partenza, proprio perché non nasconde in alcun momento la storicità e la problematicità della questione.
L’Isola di Sark resiste alla globablizzazione
Il programma dei Barclay, che volevano trasformare l’isola in un “parco a tema”, è stato, quindi, severamente bocciato dagli isolani, che preferiscono, evidentemente, l’impostazione agreste ed ecologica costantemente seguita dall’attuale amministrazione.
Ricorderemo che una situazione analoga si era verificata alcuni anni fa nel Principato del Lichtenstein, dove una riforma mirante ad esautorare il Principe era stata bocciata dagli elettori.
Non sempre l’evoluzione verso un mitizzato “progresso” è benvoluta dalla popolazione, specie oggi, quando questi minuscoli stati arcaici sopravvissuti all’“Ancien Régime” possono apparire agli Europei come felici oasi bucoliche ed ecologiche.