martedì 20 dicembre 2011

LAI TIS EVROPIS, XESIKOTHITE!



Europe, wake-up!
Europe, reveille-toi!
Europa, erwache!

Le febbrili trattative nella notte fra l’8 e il 9 dicembre hanno finalmente portato ad un accordo sulla politica fiscale comune dell' Europa, sulla messa a disposizione di ulteriori fondi per il sostegno del debito sovrano europeo, sulla riduzione del tasso di interesse della Banca Centrale Europea.
L’accordo, adottato da 26  Stati europei , anziché da 27, si riferisce in primo luogo ai Paesi dell’Eurozona, vale a dire quelli che hanno un interesse primario alla soluzione della crisi.Come tale, esso è stato salutato con sostanziale favore tanto negli ambienti politici, quanto dai mercati finanziari.
Certamente, l’accordo non è stato sottoscritto dal Regno Unito e da altri Paesi non aderenti all’Euro. Inoltre, è stato respinto in là nel tempo l’ulteriore proposta, fatta propria, tra l’altro, anche dall’Italia, di introdurre fin da subito gli “Eurobonds”, vale a dire obbligazioni parzialmente o totalmente europee garantite, parzialmente o totalmente, dagli Stati membri e/o dalla Banca Centrale Europea.
Vi sono senz’altro vari aspetti positivi, soprattutto per coloro che sostengono la cosiddetta “teoria del piano inclinato”, vale a dire che il progressivo avanzamento dell’Europa verso una federazione è un processo inevitabile ed automatico. E, in effetti, dopo l’accordo di ieri, ci dovrà essere una modifica dei trattati, che sancirà una cosiddetta “unione fiscale” fra i 17.
Dopo un certo periodo, verranno, ovviamente, in discussione, finalmente,  anche gli Eurobonds. E, siccome gli Eurobonds servono a finanziare la spesa pubblica, l’Europa finirà per ingerirsi sempre più pesantemente nella spesa pubblica, prima in modo indiretto (vale a dire controllando il rispetto del rigore di bilancio), poi, più direttamente, vale a dire promuovendo essa stessa nuovi investimenti coperti dagli Eurobonds. A quel punto, si porrà il problema di una coerenza complessiva dei comportamenti economici dell’Unione, il che porterà alla necessità di una complessiva politica economica dell’Europa.
Ma neppure quest’ultima sarà alla lunga possibile senza che una siffatta politica economica venga collegata e connessa con altri tipi di politica, come, per esempio, quella estera e di difesa, quella culturale, quella della ricerca scientifica, eccetera.
Dunque, tutto è bene ciò che finisce bene? Siamo lontani dal crederlo.
I sostenitori della “teoria del piano inclinato” partono dall’ipotesi, a nostro avviso totalmente infondata, che l’Unione Europea, nella sua evoluzione, si trovi ad operare all’interno di un mondo asettico e disincarnato, quello detto della “posthistoire”, nella quale non esistano pressioni di gruppi di opinione e/o di interessi, di Stati, di eserciti, di alleanze militari; ove non esistano diplomazie segrete, servizi segreti, corruzione, conflitti, corse agli armamenti, eccetera.
Mentre l’Europa discute con tutto comodo su come organizzare le sue politiche fiscali, in tutto il mondo i conflitti culturali, ideologici, politici, spionistici, militari, eccetera, si scatenano con rinnovata violenza.
I propositi pre-elettorali del Presidente Obama, di trattare senza pregiudizi e da pari a pari con tutti i poteri del mondo, ivi compresi quelli ostili, si sono arenati in un nulla di fatto, e, anzi, si sono trasformati oramai in uno sforzo a tutto tondo non solamente per mantenere, ma, addirittura, per intensificare, su tutti gli schacchieri mondiali, la pressione americana volta ad imporre una presenza sempre più forte della sua ideologia, dei suoi eserciti, delle sue imprese, eccetera.Ad esempio: collocamento dei missili antibalistici non solamente in Polonia, ma anche in Spagna, in Romania, in Turchia, nel Mar Baltico e nel Mare di Barents; decisione di mantenere le truppe in Afganistan fino al 2024 e di dislocare ex novo 2.500 uomini in Australia, oltre che un altro numero non identificato in Africa.
Ovviamente, tutto ciò non ha mancato di suscitare violente reazioni di segno opposto in tutti i Paesi interessati: dal Pakistan, che ha minacciato di usare l’arma atomica contro gli Stati Uniti; alla Russia, che ha messo in stato di allerta i missili dislocati a Kaliningrad; alla Cina, che, non un “revirement” di 180°, ha dichiarato che i suoi sforzi saranno in futuro concentrati prioritariamente alla messa in efficienza dell’esercito e della flotta; all’Iran, che è riuscito a catturare indenne un sofisticatissimo drone-spia americano ed ora si accinge a clonarlo.
Oltre a questi conflitti propriamente "militari", tutte le principali aree del mondo sono attraversate da tensioni politico-culturali senza precedenti: negli Stati Uniti si assiste per la prima volta ad un movimento di contestazione che attacca i centri stessi del potere economico; tutti gli Stati dell’America Latina hanno appena lanciato una nuova organizzazione regionale senza gli Stati Uniti e senza il Canada; nel Medio Oriente, la cosiddetta “primavera araba” è sfociata in un braccio di ferro, sulla vecchia falsariga turca, fra maggioranze parlamentari islamiste e generali  occidentalisti; in India, prosegue la guerriglia naxalita; in Russia, si assiste ad un conflitto a più voci fra la piazza filo-occidentale e quella ultranazionalista, fra Russia Unita e le opposizioni di estrema destra ed estrema sinistra.
L’Europa non può tenersi fuori all’infinito da queste tensioni, che rischiano, in ogni momento, di travolgerla. Inoltre, la militarizzazione generale della vita sociale, con il controllo elettronico di tutta la vita sociale (cfr., per ultimo, l’abolizione del segreto bancario) rischiano di fare, anche dell’Europa, una “società di controllo totale”, ove i conclamati ideali di libertà e di autonomia individuale si stanno trasformando in una sfacciata mistificazione.
L’attuazione delle riforme economiche dell’Europa ha bisogno del supporto finanziario dei BRICS, e, per questo, essa non può tenere una politica ostile agli stessi. Di converso, gli Stati Uniti continuano a richiedere ai Paesi Europei un sostegno, di uomini ma anche, e soprattutto, finanziario e di mezzi, per continuare la loro costosissima presenza militare in ogni angolo del globo. È particolarmente significativo, a questo proposito,  che, in un momento in cui l’Europa chiede selvaggi sacrifici a tutti i Paesi e a tutte le classi sociali, si sia concordato il prolungamento della missione afgana fino al 2024.Nel caso dell’Italia, il cui Primo Ministro lamenta di non potere più pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti, non è neppure stata discussa l’ipotesi di stralciare dal bilancio un ulteriore investimento per la difesa di 23 miliardi di Euro, per la maggior parte dedicato all’acquisto di obsoleti cacciabombardieri Lockheed F35, che, in America, si vogliono oramai toglieredalla produzione.
Quanto sopra significa che, se l’Europa non vuole fare la fine del classico  "vaso di coccio in mezzo aui vasi di ferro", ha bisogno, fin da subito, non solo di una sua politica fiscale, o anche solo  di una politica economica a tutto tondo, bensì di una politica globale a tutto tondo, capace di definire gli obiettivi storici del nostro Continente, i suoi specifici valori sociali, nuove strutture istituzionali in sostituzione della farraginosa burocrazia europea, degli Stati membri e degli Enti locali, i suoi rapporti con il resto del mondo.
Tutti ci risponderanno che ciò è oggi irrealistico. E, tuttavia, se non ci incomincia tempestivamente a sviluppare una concezione culturale dell’Europa, non si avrà mai una concezione politica globale, che vada al di là degli attuali occasionalismo politico e tecnocrazia.
Anche i più convinti europeisti sono, infatti, assurdamente convinti che già  esista una chiara concezione della cultura europea, che l’iter di evoluzione dell’Europa sia ineluttabilmente segnato e che bastino dei bravi tecnici, e/o, al massimo, dei bravi tattici e negoziatori, per eseguire al meglio il copione. Ci si dimentica che, su questioni come i limiti della tecnica, il confronto militare mondiale, l’economia sostenibile, il pluralismo culturale, occorre prendere decisioni epocali, che richiedono classi dirigenti con una solidissima formazione culturale.
Ciò non è vero, oggi, per l’Europa come non era vero all’inizio dell’Ottocento per gli Stati Nazionali.
Allora, sulla base delle esperienze inglese, americana, francese e russa, alcuni isolati intellettuali europei incominciarono a pensare all’esistenza di una “nazione culturale” tedesca, italiana, polacca, yugoslava.
Dopo la sconfitta di Napoleone, alcune sette cominciarono a coltivare l’idea delle nuove nazioni, e solo verso la metà del secolo un certo numero di intellettuali di “mainstream” cominciano a propagandare l’idea della creazione di uno stato nazionale.
Ma fu solamente nella seconda metà di quel secolo che tali Stati si concretizzarono, anche se solo allora cominciarono ad affrontare il compito immane dell’unità culturale.
La nascita della moderna nazione italiana parte dalle osservazioni filosofiche di Alfieri, dalla poetica moderna di Leopardi, dal culto degli eroi di Foscolo, dal cattolicesimo liberale di Manzoni, e solo allora si manifesta nella Giovine Italia e nella Società nazionale, e solo alla fine nei moti carbonari e nelle Guerre di Indipendenza.Così, l’idea di una Kulturnation nasce innanzitutto con il Teatro Nazionale Tedesco di Goethe e di Schiller, e con i discorsi di Herder e di Fichte. Solo allora si traduce nella guerra di liberazione nazionale e nella filosofia hegeliana della storia. E solo più tardi ancora nel Parlamento di Francoforte e nello Zollverein. E solo nel 1887 nascerà il 2° Impero Tedesco.
Torniamo dunque alla necessità innanzitutto di un lavoro culturale, paragonabile a quello degli Alfieri, dei Leopardi, dei Foscolo, dei Manzoni, dei Goethe, degli Schiller, degli Hegel e Heine, quelli che, delineando i tratti grandi, e, se vogliamo, universali, danno un senso, per così dire concreto, alla necessità della sua unità e indipendenza.
È paradossale che chi oggi esprime con maggior convinzione la fiducia in una specifica identità europea, capace di porsi in una posizione d’avanguardia rispetto al resto del mondo, sia oggi un intellettuale americano, Jeremy Rifkin, che parla, per la sua futura “società dell’empatia”, di un “Sogno Europeo”.



COPIARE LA GERMANIA

Germany, Europe's Social Heartland
L'Allemagne, le Coeur social de l' Europe
Deutschland, Europas  schlagendes Herz

 L’estrema debolezza dimostrata dall’Europa nel corso della recente crisi economica mondiale, e, ancora recentissimamente, l’incredibile difficoltà con cui la stessa sta tentando di adottare strumenti più adeguati per orientare l’economia dell’area Euro, dovrebbero imporre a  tutti gli ambienti  un severo esame di coscienza, riconoscendo che, nel complesso, tutti i sistemi di pensiero e di azione politica europea dovrebbero svolgere una radicale autocritica.

Infatti, solamente se si comprenderà perché non si è previsto quanto accaduto,  e/o agito a sufficienza per prevenirlo, sarà possibile apportare, all’attuale realtà, le modifiche realmente necessarie.

Partirei, quindi,  da due ordini di osservazioni:

-     in primo luogo, dal fatto che, nonostante che la crisi, vale a dire la riduzione del tasso di crescita, stia colpendo, in un modo o nell’altro, tutti i Paesi del mondo, vi sono almeno tre Paesi che, nonostante tutto, sono riusciti, fino ad ora, a mantenere un tasso di crescita costante ed elevato: la Cina, l’America e la Germania.

        Per ciò che concerne la Cina, le ragioni sono, a nostro avviso,  evidenti:

       -la Cina ha avuto, per 6000 anni e fino ad un secolo fa, il PIL più elevato del mondo, sicché la drastica riduzione dello stesso si spiega solo con le invasioni straniere e le guerre civili, che sono finite con la Rivoluzione Culturale;
          -la Cina è, con l’India, l’unico Paese ad avere un sistema di governo economico adeguato ai tempi, cioè a livello sub-continentale;

          -il fatto di avere centinaia di milioni di persone al di sotto del limite di povertà non è, certo, un ostacolo, bensì permette di accelerare rapidamente, con un’azione pubblica, il tasso di crescita, ogniqualvolta ciò si riveli necessario;

Gli Stati Uniti riescono ancora a scaricare sugli altri peasi gli effetti negativi delle proprie crisi, attraverso l’uso del dollaro come moneta di riserva, il controllo dei meccanismi finanziari mondiali, l’utilizzo delle leve militare e mediatica.


A nostro avviso, quella dialettica di tipo veteroideologico, che è stata utilizzata per spiegare, in passato,  i punti di forza della Germania, si sta rivelando, oggi, insufficiente, portando, con ciò, alla luce l’erroneità delle interpretazioni correnti, e l’imprescindibilità di una nuova, diversa, interpretazione.

Si è detto  che la Germania ha più alti livelli tecnologici e maggiore competitività, che le permettono di esportare anche con una moneta forte. Ma perché ciò è possibile, se anche la Germania Occidentale, come l’Italia, dopo la guerra, era distrutta, le sue attrezzature ed i suoi specialisti venivano portati nei Paesi vincitori, e se anche la Germania Est, come l’Ungheria, la Lettonia e la Romania, era stata completamente comunistizzata?

Noi avremmo  una ben precisa spiegazione, certo diversa da quelle azzardate dalle diverse scuole.Per ragioni complesse, riconducibili, in ultima analisi, alla storia della cultura tedesca, in Germania, dopo la 2ª Guerra Mondiale, si costruì un sistema sociale inedito, irriducibile a quelli degli Stati Uniti e a quelli di buona parte dell’Europa Occidentale, ma con grandi affinità solo con quello olandese, e notevoli affinità con quelli francese, scandinavo e austriaco.

Tale sistema era, ed è ancor ora, fondato su quattro pilastri fondamentali:

-      una politica di stabilità, come strumento di freno al leverage finanziario;

-     sostanziale socializzazione delle grandi imprese, dove la cogestione paritaria, la fine delle grandi famiglie, il ruolo delle banche, dello Stato e dei Länder, fanno sì che l’impresa non venga gestita nell’interesse degli azionisti, bensì in quelli complessivi degli stakeholders (in coerenza con le ancestrali teorie della "concezione istituzionale dell' impresa");

-    il riconoscimento di un ruolo centrale della classe operaia, fondato su due pilastri: la forte professionalizzazione attraverso l’apprendistato, e il forte ruolo del sindacato;

-      il ruolo centrale delle famiglie nelle piccole imprese, caratterizzato da particolari forme statutarie, fondate, non già sul livello della partecipazione azionaria di ciascuno, bensì su principi ereditari e consensualistici;

-      la forte integrazione fra città e campagna, fabbrica e agricoltura;

-     una tradizione di energica  legislazione a tutela del lavoro, la quale  risale addirittura a Goethe e a Bismark, e che prevale addirittura sulla volontà delle parti sociali.

È questo sistema sociale ad avere prodotto i risultati che oggi tutti ammirano.Non essendo ossessionate né dall’esigenza di chiudere positivamente l’esercizio, né dai conflitti successori, le imprese hanno continuato ad investire ininterrottamente nella formazione del personale, nella ricerca e sviluppo, nel rafforzamento dei marchi, nelle acquisizioni all’estero. Grazie a questa politica, i prodotti tedeschi si situano tutti nelle fasce alte, ad altissimo valore aggiunto (esempi tipici, Mercedes, BMW, Bosch, Miele). Tali prodotti non possono essere prodotti se non da manodopera altamente qualificata, la quale viene corrispondentemente remunerata.

Grazie a queste caratteristiche della propria produzione, la Germania non teme la concorrenza dei prodotti a basso costo, e riesce comunque ad esportare anche nei momenti di crisi.L’Euro forte ha ulteriormente favorito queste caratteristiche della Germania, da un lato, impedendo agli altri Paesi europei di difendersi con svalutazioni competitive, e, dall’altro, costringendo ancora di più le imprese tedesche a distinguere nettamente fra produzioni ad alto valore aggiunto, da mantenersi in Germania, e le altre produzioni, da delocalizzarsi.

Il progressivo diffondersi, anche in Germania, delle ideologie della globalizzazione (socialismo, capitalismo; flessibilità, tutela del lavoro) ha fatto sì che, spesso, neppure i Tedeschi si rendano conto dell’esatto profilo del loro sistema. Figuriamoci , poi, gli stranieri. Per questo, anche i dibattiti sulle future strutture di governance europea ne risultano falsate, perché il problema non è quello di un equilibrio fra diverse formule giuridico-economiche, bensì quello fra diverse strutture socio-economiche.

Ma, soprattutto, quest' errata interpretazione ideologica non ha consentito , fino ad ora, un adeguato dibattito sull’opportunità, e/o sull’imprescindibilità, per tutti gli Europei, di confrontarsi con il sistema tedesco, e, anzi, forse, addirittura, di imitarlo.

Le ragioni per le quali i pochi conoscitori del sistema tedesco lo hanno, in passato, sconsigliato, erano, a nostro avviso, prettamente ideologiche:

-      secondo i "cantori" delle capacità taumaturgiche del ceto imprenditoriale italiano, la cogestione alla tedesca e il ruolo centrale della classe operaia avrebbero posto in essere un sistema rigido, che avrebbe frenato la grande capacità di produrre ricchezza,  che secondo costoro, sarebbe stata tipica  dell’imprenditoria italiana;

-    secondo i fautori delle liberalizzazioni, i vincoli statutari delle grandi e piccole società tedesche avrebbero impedito i benefici effetti della "contendibilità" delle imprese (che, in effetti, in Germania non c’è mai stata), permettendo il mantenimento e il rafforzamento di tutto il sistema imprenditoriale tedesco, mentre invece, in Italia,l’Olivetti ha ceduto tutte le sue tecnologie all’estero, la Montedison non esiste più, la Fiat è in gran parte americana, eccetera;

-     secondo i fanatici della globalizzaione, le "metropoli tentacolari" sono in assoluto meglio delle campagne arretrate, e, pertanto, il legame con la campagna, vera radice sostanziale dell’ambientalismo, viene demonizzato.

A noi  sembra che ciò che è accaduto in questi ultimi anni dimostri che tutte queste teorie sono infondate. La Germania è riuscita a sopravvivere brillantemente a una temperie assolutamente catastrofica, in cui tutti coloro che hanno seguito le teorie opposte si trovano, ormai,  in gravissime difficoltà.

Si deve, e/o si può, imitare la Germania?

A nostro avviso, se si vuole che l’Europa possa costituire un ambito unitario di politica economica, capace non solo di salvaguardare l’“acquis communaitaire”, bensì anche andare avanti nel piano di realizzazione delle politiche sociali iscritte nei documenti europei, non c’è altra soluzione se non lanciare un grandioso piano di graduale trasformazione delle culture politiche, delle legislazioni e delle strutture di potere di tutti i Paesi Europei, pur tenendo presente che, fortunatamente, non sussisterà sempre una diversità fra le identità dei vari territori, che sventerà comunque sempre il rischio di un’omologazione.

Il punto è che l’Europa ritorni a seguire, come direttiva, il proprio specifico modello di sviluppo, allontanandosi, invece, dal modello dell’omologazione e della globalizzazione, che, come dimostrano i fatti, non è adeguato alle nostre società, e ci sta portando alla catastrofe.

A nostro avviso, un siffatto modello europeo di sviluppo "tedesco" è, sostanzialmernte, il modello europeo.


BIG BANG DELLA CULTURA EUROPEA


Woody Allen Joins European Forces against American Globalisation
 Woody Allen rejoins les forces européennes conte la mondialisationaméricaine.
Woody Allen teilt mit europaeischen Kulturkraeften den Kampf gegen Amerikanisierung.

Mentre le strutture politiche ed economiche dell’Europa stentano a consolidare un’adeguata riforma legislativa in materia di politica economica e finanziaria, e, ciononostante,  i mercati incominciano a stabilizzarsi, la buona notizia sta provenendo, a nostro avviso, dal campo della cultura europea, che era stata caratterizzata,  in questi anni, da una fase di inaccettabile inerzia, stagnazione e conformismo. Essa appare, invece,  nel corso degli ultimi mesi, rivitalizzarsi in vari campi, con l’emergere di prodotti di alta qualità, di elevata ispirazione, ma, soprattutto, veramente vicini alle problematiche degli Europei.

Come già detto più volte, rigettiamo la contrapposizione usuale fra, da un lato, una cultura identitaria, considerata limitativa e regressiva, e una cultura universale, positiva e progressiva.

Le culture identitarie costituiscono un corollario onnipresente e necessario della globalizzazione. Nel momento stesso in cui, con le due Guerre Mondiali, l’America avviava la propria espansione nel mondo, essa elaborava, da un lato, con i Western Cultural Studies, la teoria della cultura “occidentale”, e, dall’altro, la teoria delle “identità”, e, in primo luogo, quella dell’Identità Europea, appoggiandosi sugli studi di antropologi europei, come, in primo luogo,  Franz Boas.

Da allora, ad ogni passo in avanti della cultura omologante globalizzata ,ha fatto seguito la produzione di una nuova teoria culturale identitaria, molto spesso favorita , con un apparente partadosso, dall’industria culturale hollywoodiana.

A Hollywood vanno fatti risalire gli  stereotipi nazionali, come quello del Giapponese, o del Russo, fanatico o guerrafondaio, dell’Italiano mafioso, del Cinese infido e corrotto, del Messicano delinquente, eccetera, ma anche l’esaltazione, in positivo, di eroi del passato, da Alessandro, a Spartaco, a Robin Hood, a Elisabetta d’Inghilterra, descritti come illuminati anticipatori della moderna civiltà “occidentale”.

Anche la costruzione delle “identitàetniche moderne è, a nostro avviso, largamente debitrice della cultura hollywoodiana, la quale, come dicevamo, ha ripreso le teorie di antropologi che lavoravano per l’amministrazione e l’esercito americano, come, per esempio,nel caso de “La Spada e il Crisantemo”.

La costruzione di queste identità era funzionale alla visione di una leadership mondiale americana, nella quale le nazionalità avrebbero avuto un ruolo di "comprimarie" con l’America.

Ma, a tale fine, occorreva prima smontare e assorbire, in nuove identità, prive di ambizioni di leadership, le "nazionalità romantiche", e, prima ancora, le "nazionalità ancestrali", a cui quelle romantiche si ispiravano.

Le identità collettive moderne sono state, dunque, create per rendere possibile, e accettabile, la globalizzazione sotto la guida occidentale. Come tali, esse esistono in gran parte come epifenomeno della globalizzazione. Tuttavia, esse sono anche, almeno in teoria, utilizzabili nell’ambito di altri contesti.

Anche l’identità sudamericana, creata come forma di imitazione degli Stati Uniti, potrebbe benissimo evolvere, come nel caso del CELAC, in una funzione di indipendenza degli stessi.

A nostro avviso, perfino in Cina abbiamo assistito, all’inizio della disgregazione dell’Impero Qing, ad un fenomeno di importazione di un’"identità cinese occidentalizzante", vale a dire quella dei Taiping, sostenuta, anche militarmente, dagli Anglo-Americani, ma poi repressa dagli stessi quando il nascente impero rivoluzionario (cristiano e filo-americano) incominciò a manifestare un’ambizione di leadership nei confronti dello stesso Occidente. Non per nulla Mao considerava i Taiping come degli anticipatori della rivoluzione popolare cinese.

Che esse siano un fenomeno ancillare alla globalizzazione, ovvero ne siano un’alternativa, le identità esistono ed hanno una loro forza, più evidente in taluni casi (come, appunto, la Cina, il Medio Oriente o l’America Latina), meno evidente in altri.
Il caso dell’Europa è paradossale. Il progetto di unità dell’Europa si trascina da almeno 900 anni, da Dante, a Podebrad, a Sully, a St. Pierre, a St. Simon, a Proudhon, a Mazzini, a Nietzsche, a Coudenhove-Kalergi, a Spinelli, all’Unione Europea, eppure vi è ancora chi dubita che l’Europa abbia una sua propria identità culturale, vuoi perché si ritenga che le identità culturali non esistono, vuoi perché si ritenga che solo le nazioni abbiano un’identità culturale, vuoi perché si pensa che esista un’unica identità occidentale.

Ma è qui il paradosso. Coloro i quali negano che esistano delle identità culturali, spesso sono anche esaltatori della cultura americana e denigratori di quelle di altri Paesi, per esempio di quella islamica. Quindi, implicitamente, essi ammettono che tali identità esistono.

Coloro i quali sostengono che esistano solo le identità nazionali, non riescono però a spiegare in modo convincente in che cosa l’identità francese si distingua da quella spagnola o italiana, quella tedesca da quelle olandese, svizzera o austriaca.

Infine, coloro che pensano che vi sia una sola identità occidentale finiscono poi per attribuire tutti gli aspetti positivi all’America, e quelli negativi all’Europa, in tal modo dimostrando, una volta di più, che tali identità esistono.

Una serie di eventi culturali recenti, che fanno riferimento a questa unitarietà della cultura europea ci confortano in questo nostro assunto.
Citiamo, a questo proposito, come semplici esempi, alcuni prodotti culturali e mmanifestazioni che tendo a esaltare l'unitarietà e continuità della cultura europea:

-UNA SERIE DI RECENTI FILM, COME PER ESEMPIO, IL FAUST DI SOKUROV, MELANCHOLIA DI  LARS VON TRIER, PINA DI WIM WENDERS, e MIDNIGHT IN PARIS, DI WOODY ALLEN;
-IL LIBRO "LA CIVILTA' DELL' EMPATIA", DI JEREMY RIFKIN;

-"IL MONDO DI PERICLE", DI LUCIANO CANFORA;

-"IO E DIO", DI VITO MANCUSO.

Ci riserviamo di ritornare fra breve su questi temi.










RIPARTIRE DA ZERO NEL SINDACALISMO EUROPEO

Il ministro torinese Elsa Fornero piange nell'anticipare le grandi linee della politica sociale di Monti.
La presentazione a Torino, a cura del Centro Einstein di Studi Internazionali, del libro di Emilio Gabaglio, Il modello sociale europeo e la Confederazione Europea dei Sindacati ci offre un'opportunità per svolgere, in questo momento di profonda trasformazione dell' Europa, una riflessione di lungo periodo su ciò che il sindacalismo rappresenta e può rappresentare per l' identità europea.
Le lacrime del ministro Fornero nel momento in cui il Governo Italiano

1.Breve storia del sindacalismo europeo.

Il carattere partecipativo è un tratto comune delle società più antiche, siano esse la democrazia di villaggio africana, oppure la "democrazia militare" dei popoli dei kurgan. E, tuttavia, l'Europa è, fra tutte le grandi civiltà, quella che più a lungo ha conservato,  e in modo coerente ,questo carattere originario,come  per esempio nelle poleis, nelle federazioni tribali del "Barbaricum", nelle comunità monastiche, nei collegia, nelle confraternite, nelle corporazioni, nei Comuni,  nelle repubbliche aristocratiche.

Quando, con le Rivoluzioni americana e francese, fa la sua comparsa la democrazia rappresentativa, la reazione fu ampia e articolata: dai Federalisti al Compagnonnage, dal Socialismo della Cattedra alla concezione istituzionale del diritto.

Il sindacalismo è un fenomeno specificatamente europeo, che ha pochi riscontri nel resto del mondo.

Esso esprime una forma di reazione all'avversione, propria della cultura liberale ottocentesca, alle antiche forme di democrazia partecipativa.

Agli attacchi, contro le antiche forme di rappresentanza, lanciati dalle monarchie assolute e dalla Rivoluzione francese (Decereto di Colleret Collet e Legge Le Chapelier), rispondono le rivolte luddiste in Inghilterra, i "movimenti sociali in Francia", studiati dal Barone Von Stein, il "socialismo della cattedra", l'"Organische Gedachte" dei Calvinisti olandesi di Abraham Kujper..

Lassalle organizzarà , nella Germania bismrckiana, il Partito Socialdemocratico come un esercito, rispondendo, così, all' appello del Kaiser ai "Soldaten der Arbeit".

E' la nascita della legislazione del lavoro, con la Gewerbeordnung del Norddeutscher Bund.

Il tradeunionismo britannico risponde alla Rivoluzione industriale inglese e si afferma nonostante la "spada di Damocle" della criminalizzazione, in base a cui l' associazionismo operaio viene equiparato a un "complotto" contro il Regno ("conspiracy").

Jean Sorel  sarà  il primo a interpretare il sindacalismo come una rivincita dell'uomo naturale, il lavoratore, contro le costrizioni intellettuali del perbenismo borghese, vedendo egli, nello Sciopero Generale, il nuovo mito, capace di ripristinare lo spirito eroico.

La Rivoluzione bolscevica ridarà slancio al massimalismo socialista, che troverà, in Antonio Gramsci, un teorico originale, che riuscirà brillantemente a conciliare la ricerca di nuove élites, tipica della "cultura alta" della prima metà del Novecento, con l'emergere della classe operaia.

L'occupazione del Lingotto costituisce il primo esempio di realizzazione pratica del mito sorelliano dello Sciopero Generale. E, tuttavia, non sarà Gramsci, ma Mussolini, a raccogliere quanto seminato dal Sindacalismo Rivoluzionario. In realtà, in esito agli eventi della Rivoluzione d' Ottobre, il sindacalismo rivoluzionario cominciava giù da allora a disertare l'alveo marxista, andando alla ricerca, sui più svariati lidi intellettuali, di una teoria che lo portasse al di fuori delle secche del burocratismo statalista. Intanto, è D'Annunzio a creare, con la Repubblica del Quarnaro, il primo esperimento di Stato sindacale del lavoro, retto dalla prima costituzione sociale della storia, la Carta del Quarnaro. 

 Un altro tentativo di sintesi sarà esperito da Gobetti, che, sempre nella Torino dell' occupazione delle fabbriche, concepisce la rivoluzione degli operai come la nuova Rivoluzione Liberale, capace di realizzare un Ordine Nuovo.

Sul piano europeo, Ernst Juenger, un eccezionale letterato che riesce in ogni momento a incarnare  plasticamente nelle sue opere i pensieri dominanti degli Europei, porta a termine la prima parte della sua trilogia sulla modernità europea, "Der Arbeiter", in cui questo nuovo stereotipo, tradotto come l'"operaio", configura il nuovo "tipo di uomo" dominante  sulla scena sociale europea,dominata dalla grande industria e dagli Stati Nazionali del Lavoro.

Sotto questa categoria, Juenger sussume tutti gli Stati autoritari del suo tempo, aventi, come loro caratteristica comune, il fatto di conferire un ruolo centrale al "lavoratore". E' l'ora dei "consigli degli operai, dei contadini e dei soldati"in Unione Sovietica, delle "Carte del Lavoro"nei paesi fascisti, degli "Accordi Fondamentali" in Scandinavia.

Anche la dottrina politica e economica attribuisce la massima importanza al fattore sindacale. L'Enciclica "Rerum Novarum", partendo da un' osservazione di Tocqueville , sul ruolo dei corpi intermedi nella lotta contro l'omologazione modernistica, apre la strada ad un corporativismo cattolico.

Corporativismo che era nell' aria in tutta Europa, e trova ler proprie maggiori manifestazioni nel corporativismo fascista (italiano, spagnolo e portoghese), ma anche nei tentativi inglesi e austriaci di contrapposizione tanto al liberalismo, quanto al fascismo che al comunismo. Un fenomeno noto come "Guilds Socialism".

2.La Democrazia Partecipativa del Lavoro come elemento fondante dell' Integrazione Europea.
 
I progetti di nuova sistemazione dell' Europa  dopo la Seconda Guerra Mondiale continuano  ad attribuire un ruolo centrale all' autoorganizzazione dei lavoratori.Ciò che è particolarmente impressionante è la consonanza fra i progetti elaborati dai movimenti politici più diversi, dalla Carta di Verona del fascismo repubblicano, ai progetti di costituzione europea del comandante partigiano Duccio Galimberti, al Manifesto di Ventotene del Movimento Federalista Europeo, ai nuovi ordinamenti dati all' Olanda e alla Jugoslavia dopo la fine del conflitto.

Negli Anni Cinquanta si elaborano, come conseguenze, forse inconsapevoli e non volute, di tutte queste tradizioni, i più compiuti esempi di ruolo centrale del sindacalismo, che si siano realizzati nel corso della storia. 

Parliamo qui, innanzitutto, del "Modell Deutschland", il quale, a nostro avviso, realizza in gran parte, senza saperlo, per l'effetto provvidenziale dell' "eterogenesi dei fini",  il massimo livello diattualizzazione storica dell' ideale europeo di partecipazione del mondo del lavoro alla gestione dello Stato e dell' economia.

Non è, questo, né il luogo, né il momento, per sviscerare logiche, origini, storia, caatteristiche, realtà e prospettive del modello tedesco.WE, tuttavia, non possiamo non tratteggiarne almeno qualche puntyo fondamentale. Elementi caratterizzanti che a noi parte di individuare nei seguenti aspetti:

-rifiuto della dittatura del PIL e privilegiamento della stabilità;

-eliminazione fattuale, anche se tacita, dello "spirito capitalistico", attraverso un'originale "governance d' impresa, che associa dinastie industriali e sindacalismo, Stato centrale e Regioni, finanza locale e internazionale;

-rivalutazione della dignità delle singole e specifiche professionalità, a cominciare da quella operaia, rivalutata attraverso una formazione di tipo scolastico, un riconoscimento  ufficiale pubblico e un ruolo di codeterminazione delle scelte aziendali.

Il "Modell Deutschland" ( "Stabilitaet/Foederalismus/Hausbank/Stiftungen/Betriebsverfassung/Berufsausbildung) costituisce l'elemento trainante di un'area centro-settentrionale dell' Europa (Francia, Paesi alpini, Benelux, Scandinavia), i quali, grazie alle misconosciute virtù di questo modello assolutamente in controtendenza, ha potuto prosperare in tutti questi decenni, trainando anche, perfino contro la loro volontà, gli altri Paesi d' Europa (come per esempio la Francia gaullista e l' Italia dello Statuto dei Lavortatori).Si potrebbe perfino, a nostro avviso, scrivere una storia sociale dell' Europa basata sull' ininterrotta lotta di questo modello sociale contro il "modello sociale occidentale".

La stessa "costituzione materiale" dell' Europa è rimasta, in ultima  analisi, profondamente influenzata da quest' eredità.

Basti pensare al dialogo sociale europeo e alle direttive sulla partecipazione dei lavoratori.

E, tuttavia, proprio questa coessenzialità fa sì che la costruzione europea soffra di tutte le debolezze del modello sociale europeo.

Innanzitutto, debolezze culturali e psicologiche, che derivano dall' avere accettato una "dittatura culturale" di una virtuale "Europa Occidentale", che non rende giustizia a quell'esigenza di "centralità", da cui nasce la stessa integrazione europea .

Per esempio, una certa vergogna nel riconoscere le proprie origini, come accadeva già a Toennies e a Gramsci. Per esempio, nel "mettere il silenziatore" ad aspetti fondamentali della propria storia, come è accaduto con Gobetti e Galimberti. Per esempio, nel privilegiare esperienze lontane, come è accaduto a egregi giuslavoristi come Treu e il compianto, ma anche un pò troppo beatificato, Biagi.

Poi, debolezze politiche nei confronti di tendenze, pur reali nel movimento dei lavoratori, ma non corrispondenti al suo filone fondamentale, come per esempio i diktat ideologici della Terza Internazionale e i finanziamenti occulti dell 'AFL-CIO.

Infine, del fatto che l' Europa, a partire, sotto certi aspetti, dagli stessi Padri Fondatori, si è concepita come intellettualmente dipendente dagli Stati Uniti. E questo ha certamente sminuito, e continua a sminuire, il ruolo, nel nostro Continente, del movimento dei lavoratori, il quale, sia detto chiaramente, in America non ha mai contato nulla.

E, certamente, se questa debolezza ha colpito, ovviamente, innanzitutto il Regno Unito, e, poi, l'Italia, essa non ha lasciato indenni, né la Penisola Iberica, né la Francia, né le stesse Europa Centrale e Orientale.

E'per questo che, nonostante  tutte le lodevoli premesse, in Europa, il movimento sindacale europeo continua a cumulare delle sconfitte. Gli intellettuali del "mainstream" vogliono convincerci che non ci sia nulla da fare, in quanto il modello tecnocratico del ceto medio avrebbe travolto, per obiettivi motivi di evoluzione tecnologica, il modello eroico del "lavoratore".

Noi non siamo d'accordo. 

L'Europa sta lottando, senza accorgersi, per difendere la propria identità contro le forze impersonali della globalizzazione. Tutte le forze che, insieme, costituiscono il "nocciolo duro" dell' Identità Europea sono chiamate a partecipare a questa lotta. Il sindacalismo europeo è una di queste forze.  Come per tutte le altre fiorze dell' Europa (intelligenzija, etnie, religioni, management, realtà locali, immigrati, giovani), essa potrà sopravvivere solamente, e nella misura in cui, esso si unirà alle altre forze che combattono per l'Europa. Le formali manifestazioni di solidarietà per l'ideale europeo sono inutili, perchè misconoscono che l'integrazione europea è una questione di lotta, una lotta di cui quella dei lavoratori è semplicemente una parte.

Un altro aspetto, sempre misconosciuto, ma che, oggi, dovrebbe essere valorizzato al 10%, almeno, e/o soprattutto, dai sindacati: nonostante settant'anni di "Germany bashing", di strumentale propaganda distruttiva contro la Germania, la Mitteleuropa e il suo sistema sindacale, sociale e politico, addirittura dopo 70 anni, la Germania sta vivendo ora, finalmente, il più fulgido momento della vittoria del proprio sistema socio-economico.

Paradossalmente, solo la Germania e i Paesi che condividono i suoi valori escono vittoriosi dalla crisi generalizzata del sistema socio-economico "occidentale", fondato su principi diametralmente opposti a quelli della Germania e della Mitteleuropa. Se non fossimo dominati da una cultura politicizzata, ciò dovrebbe, ovviamente, fare oggerto di un' approfondita riflessione. Cosa che, invece, non è.

Chiediamo, ovviamente, a tutti,e, fra gli altri, in primo luogo,ai sindacalisti, di prendere atto di quelle semplici, ma inequivocabili, realtà. Il che dovrebbe avere come conseguenza, innanzitutto, una chiara autocritica, da parte di coloro che hanno creduto nella rivoluzione comunista, e/o nell' autonomia della classe operaia sul modello del sindacalismo inglese, e/o nel sindacalismo democratico di tipo anglosassone. Tutti questi modelli culturali hanno portato alla sconfitta dei lavoratori europei. Costituisce, oggi, un vero e proprio obbligo morale dei sindacalisti  europei cambiare i loro paradigmi culturali, adottando quelli che possono dare forza alle loro lotte. Orbene, il solo paradigma che può aggiungere forze alle lotte dei sindacalisti europei è, oggi,  la lotta per l' integrazione, l'unità e la forza dell' Europa.

Occorre, ora, cominciare una battaglia culturale, sociale e politica, per rovesciare mezzo secolo di disgregazione della società europea, creando, con ciò,  una nuova cultura.

In campo economico e sociale, ciò significa, a nostro avviso, rovesciare l'idea di un sistema fondato sull' effimero ( Wall Street; la "contendibilità"; la flessibilità; il costo del lavoro), per passare alla stabilità e alla permanenza (l'Europa; le imprese per l' Europa e per il Territorio; la professionalità come baluardo della forza del Territorio nel mondo;  lavoratori ultra-qualificati, quali garanzia di imprese all' avanguardia mondiale).

3. Cosa dovrebbe  fare il movimento sindacale europeo.

Noi non stiamo certo dettando al movimento sindacale europeo le sue regole di condotta a causa di una nostra congenita megalomania, anche se siamo sempre stati, paradossalmente, sinacalisti, anche sem ancora paradossalmente, del management. Al contrario, ci vediamo costretti  a proporre una nostra "ricetta" per salvare il movimento sindacale europeo, perchè stiamo constatando, ogni giorno di più, che, se lasciato a se stesso, quest'ultimo, il quale costituisce una parte integrante ed essenziale delle forze di cui l' Europa può disporre, si sta avviando verso l'autodistruzione.

(i) Unirsi agli sforzi dei pochi, ma determinati, intellettuali europei,  che si battono per ridefinire la"Identità Europea";

(ii) Restituire ai lavoratori europei (ben più numerosi degli "operai"), l'orgoglio di costituire una parte integrante e essenziale della società europea ("ius activae civitatis");

(iii) Divenire la "punta di diamante" della lotta politica contro quest' Europa tecnocratica e globalizzata, per un'Europa della cultura, della partecipazione, della qualità della vita.

Come è possibile raggiungere un siffatto risultato?:

(i)non disdegnare di partecipare al dibattito fra gli Europeisti sul futuro del Modello Socio-Politico Europeo;

(ii)partecipare agli  sforzi di coordinamenrto fra le pià svariate  forze filo-europeiste, per portare avanti, nei più diversi ambienti sociali, una lotta vigorosa  di lungo periodo per un' Europa Una, Libera e Forte;

(iii) porre, al centro della Vostra (a nostro avviso, ancor sempre necessaria), battaglia, l'applicazione, in tutto il nostro Continente, dei principi che hanno reso  grandi e vittoriosi, la Germania in generale, e la Mitteleuropa in particolare: 

STABILITA', FEDERALISMO, COGESTIONE, AMBIENTALISMO !!!

 Il Movimento  Sindacale Europeo (nel quale, paradossalmente, ci identifichiamo), liberato, da un lato, dalle sue pastoie ideologiche, e, dall'altro, da una limitativa ottica economicistica, potrà tornare, a nostro avviso, a rappresentare la "punta di diamante" del Movimento Europeistico, solo nella misura in cui sappia accettare questa modesta proposta, di riconoscere le sue radici e LA  SUA MISSIONE.

Solo se la "Soziale Bewegung" di cui parlava von Stein saprà ritornare alle sue radici europee, l'Europa potrà conseguire il suo, sempre più agognato, obiettivo:un mondo e una società armonica, non ideologica, e prossima alla natura, in cui anche i "lavoratori" (cioè quasi tutti noi) possano trovare un loro "ubi consistam" (senza che nessuno imponga loro un progetto prefabbricato di "salvezza").

Solo  se  perseguiremo, con eroica determinazione, gli obiettivi quali sopra delineati, diverrà possibile ciò che è, oggi, sommamente necessario:che gli Europei, popolo diverso e ramificato quant'altri mai,  possa identificarsi con un progetto, individuale e collettivo, per tutti accettabile,senza dover  essere tutti schacciati dalle forze impersonali della Globalizzazione.

Solo in questo modo diverrà possibile che i nostri/le nostre intellettuali-lavoratori/lavoratrici , come per esempio il Ministro Fornero (vedi immagine), non debbano più vergognarsi (come ci vergogniamo, ahimé,  tutti) di questo mondo di cui noi non ci sentiamo, in verità, partecipi.


Noi siamo l'unica via di uscita delle Vostre contraddizioni. E'ovvio che non lo possiate accettare, visto che, su questo, avete basato le Vostre carriere. Però, la logica vuole che dovrete, prima o poi, volenti o nolenti, accettarlo.Per sopravvivere. Per dare una logica a quello chev



Ovviamente, tutto ciò si presta ad ogni forma di dibattito.


Noi, intellettuali europei, siamo pronti a questo confrnto. Attendiamo a piè fermo i sindacalisti.
















































giovedì 1 dicembre 2011

COMMENTI SUI GOVERNI TECNICI

Technical Governments Reopen Debate on Democracy in Europe
Les Gouvernements techniques rouvrent le débat sur la démocratie en Europe
Technische Regierungen oeffnen  Debatte ueber Demokratie in Europa wieder.

Ripartendo dall' intervento di De Siervo, notiamo che ci è voluta la dichiarata opposizione, da parte delle Autorità europee e del Presidente della Repubblica Italiana, ad una risposta "elettorale" alle crisi greca e italiana per portare pienamente alla luce la questione del "deficit di democrazia" in Europa.


1.Da Montesquieu a Tocqueville
 
La questione è tutt'altro che nuova, tant' è vero che l'aveva già sollevata Montesquieu, affermando che "la democrazia non è possibile in uno Stato di grandi dimensioni". Questo principio era stato ripreso testualmente, da un lato da Hamilton, e, dall' altro, da Caterina di Russia, il primo per affermare che l'America aveva bisogno del federalismo, e, la seconda, per confermare, usando le parole stesse di Montesquieu, la necessità dell' autocrazia in Russia.

Il federalismo europeo segue il ragionamento di Hamilton, coniugandolo con le idee di Tocqueville, secondo il quale il pericolo della tirannide della maggioranza può essere scongiurato dall'esistenza di corpi intermedi.

Dunque, federalismo più sussidiarietà.

2.Le vere dimensioni del problema

Il problema è che Tocqueville, Caterina II, Hamilton e Tocqueville avevano in mente la democrazia diretta di Atene, dove 500 cittadini ateniesi maschi, nobili, liberi e attivi, dominavano su migliaia di donne e liberi ateniesi, decine di migliaia di liberi dell' Attica, centinaia di migliaia di schiavi e meteci e milioni di altri Greci.

Invece, oggi abbiamo Stati di 1 miliardo/1 miliardo e mezzo di abitanti(come las Cina e l' India), e quasi-Stati, come l'Alleanza Atlantica, con un numero di abitanti quasi pari. E, secondo una vulgata accettata da tutti (compresi Cina e India), tutti i cittadini avrebbero  pari diritti (anche se non si comprende come potrebbero materialmente partecipare tutti significativamente alle decisioni).

Il tipo di decisioni che si assumono a quei livelli (come per esempio dove posizionare i missili balistici, oppure quando e come intervenire sui mercati borsistici e valutari) non si prestano certo, per loro natura, ad un dibattito partecipato di un miliardo di persone.Di conseguenza, per queste cose, si impone, e si accetta, l'"unità della catena di comando": Eppure, sono le cose più importanti: la sopravvivenza o meno dell' umanità, la prevalenza dell' uno o dell' altro sistema politico ed economico.

Si direbbe che, tanto in Occidente quanto in Cina, si dia per scontato che tali decisioni non possano fare oggetto di un dibattito democratico.

Vi è poi la vastissima area delle decisioni economiche fondamentali: se proseguire la ricerca scientifica o applicare il "principio di responsabilità", se adottare un sistema di mercato, un sistema pianificato o un sistema intermedio, se aprire o chiudere i mercati, se livellare o differenziare i redditi, ecc...Queste decisioni, in teoria, sarebbero atte ad essere adottate con un dibattito partecipato, e, in effetti, qualche isolato teorico estremista lo richiede, ma, di fatto, si tratta di voci non ascoltate, e queste scelte sono effettuate autoritariamente ai vertici delle grandi potenze.

Vi sono poi certe scelte di carattere strategico che hanno un significato immediato per i cittadini, come per esempio la tutela ambientale o l'integrazione europea,  che fanno oggetto, almeno in Europa, di un dibattito pubblico, ma i meccanismi decisionali effettivi fanno sì che esse vengano decise in modo non trasparente fra Autorità nazionali, lobbies ed eurocrati.

Orbene, se tutto il quadro della nostra vita, dal tipo di vita materiale, ai valori, alla cultura, alle condizioni di lavoro, alla pace, alla guerra, sono decisi sopra le nostre teste, l'area delle decisioni su cui possiamo, in effetti, influire, è veramente modesta. Mettiamoci qualche aspetto delle politiche fiscali, della gestione del territorio, delle politiche culturali locali. E, anche qui, i canali, attraverso i quali i cittadini possono influire sulle scelte sono intasati ed inefficienti.

Alla luce di tutto ciò, come scandalizzarsi se, quando ci sono delle decisioni relativamente importanti (per quanto anch'esse modeste), si sostituiscano i politici, che, con tutti i loro difetti, hanno comunque da ripresentarsi all' elettorato, con dei professionisti che, una volta terminato il loro mandato, ritorneranno alle loro lucrative carriere senza neanche il desiderio di "scendere in politica", e che, quindi, sono del tutto indifferenti agli umori dell' elettorato?


E' chiaro che i margini per una vera "partecipazione popolare" sono estremamente ridotti. Il motivo per cui questo sistema viene definito come "democratico" non ha, a nostro avviso, a che vedere con  la partecipazione (problema essenzialmente "liberale"), bensì con quella che Tocqueville chiamava "la passione dell' eguaglianza": cioè la tendenza, da parte delle società contemporanee, a favorire, con l'"affirmative action", il gigantismo del ceto medio, più gestibile che non le vecchie classi, come l'aristocrazia e il ceto contadino, il clero e la classe operaia e  perfino la vera e propria borghesia, cioè l'aristocrazia del merito e del denaro.

I cittadini accettano che le decisioni siano prese essenzialmente al vertice perchè si rendono conto che l'interesse di questo vertice è di rafforzare il ceto medio, a cui la maggior parte dei cittadini appartiene.

Che questa situazione piaccia o non piaccia, nulla nella storia è irreversibile.

4.I nuovi scenari

La società post-industriale, dominata dalle grandi organizzazioni economiche, che, grazie alla loro forza sociale, dispongono liberamente di Stati, partiti, chiese, istituzioni culturali, fornitori, imprese,professionisti, intellettuali, lavoratori, cittadini, sta incontrando serie difficoltà. Essa non è in grado di mantenere le promesse di crescita economica continua,che le aveva reso favorevole il ceto medio,  ed è posta sotto pressione da nuovi poteri. Certo, questi, come le nuove tecnologie cibernetiche o i BRICS, non sono  più favorevoli alla partecipazione dei cittadini di quanto non lo siano i grandi potentati economici. Tuttavia, come osserva Parag Khanna,si apre un periodo sempre più conflittuale. E, come sempre, è all' interno delle situazione di conflitto che possono aprirsi spazi di libertà, sempre, per altro, che vi sia qualcuno che voglia coglierli.

Questa nuova forza, che, oggi, non esiste, poterebbe formarsi proprio negli interstizi di queste lotte. Ma, anche qui, come sempre, si tratta di una questione di cultura.

L'Europa potrebbe costituire uno spazio in cui questa nuova forza culturale potrebbe manifestarsi, svilupparsi, rafforzarsi, affermarsi e realizzarsi.Alcuni, anche in altri continenti, come ad esempio Rifkin, lo auspicano

L'Europa ha una dimensione sufficiente per svolgere un ruolo autonomo e autorevole nel confronto sui grandi temi mondiali, come l'ambiente, la libertà, la pace e la guerra. Essa tuttavia non è ancora così vasta e così eterogenea da rendere impossibile una coalizzazione sensata dei consensi. Essa possiede già una seppur embrionale struttura federale. Essa ammette già il principio di sussidiarietà.

Ciò che le manca è, innanzitutto, un leitmotiv intorno a cui aprire i grandi dibattiti, affrancandone gli attori dalla "langue de bois" del "Pensiero unico". Quindi, non più "stabilità" contro "crescita", bensì "quale stabilità" e "quale crescita", non più "stato o mercato", bensì che cosa deve decidere lo Stato a livello locale, regionale, europeo e mondiale, cosa possono decidere i cittadini, che cosa i corpi intermedi. Eccetera, eccetera. Solo allora, sarà possibile creare aggregazioni di punti di vista adeguate ai vari livelli: sulle politiche culturali o ambientali, a livello locale; sui grandi orientamentio economici e sociali a livello regionali; sulle scelte sistemiche, a livello europeo; sulla pace e sulla guerra, a livello mondiale.

Solo quando saranno consolidate aggregazioni di punti di vista a questi livelli sarà possibile dare nuova vita agli esistenti canali di comunicazione, liberandoli dalle incrostazioni che li rendono oggi strumento di omologazione: all' associazionismo di base, liberandolo dai condizionamenti partitici; al web, liberandolo dai controlli dei providers e degli Stati; alle comunità locali, facendone strumenti (a "costo 0") di democrazia diretta;alla politica tradizionale, unificando le tematiche nazionali e quelle europee, a quella europea, conferendo all' Unione reali poteri nei campi economico, di politica estera e di difesa, di cultura, di ambiente, e alle Organizzazioni Internazionali una reale autonomia dalle Grandi Potenze e dai poteri forti. A quel punto, si potranno anche affrontare in modo non mistificante le questioni giuridiche, come il ruolo e la struttura delle Organizzazioni Internazionali, un nuovo patto costituzionale per l' Europa, il ridimensionamento degli Stati Membri a favore dell' Europa delle regioni, l'autonomia non solo fiscale, ma anche e soprattutto culturale, degli Enti locali.

Per adesso, i "governi dei tecnici" (di cui per altro resta ancora da verificare l'efficienza tecnica) non sono, certo, fra tutti, il male peggiore.






I GOVERNI TECNICI E LA DEMOCRAZIA IN EUROPA


 


La creazione, in Grecia e in Italia, di governi tecnici sull' ondata della crisi economica e delle richieste delle Banche Centrali, ha scatenato in tutta Europa un'ondata di dibattiti, circa la compativilità di queste soluzioni con l'attuale ordinamento costituzionale.Pubblichiamo qui di seguito l'intervento, su "La Stampa", di Ugo de Siervo.          

        
























































"L'EMERGENZA E IL RISPETTO DELLA CARTA, La Stampa, 1/1/2011, 1a pagina
UGO DE SIERVO*
La formazione del Governo presieduto da Monti e la larghissima fiducia che ha conseguito in Parlamento hanno suscitato un dibattito sulle caratteristiche costituzionali di ciò che è avvenuto.

Dal punto di vista del nostro sistema costituzionale non è mutato nulla di sostanziale: siamo dinanzi ad un Governo di tipo parlamentare, che ha conseguito una ampia fiducia dalle due Camere e che è sorto dopo le dimissioni volontarie del precedente Governo, evidentemente consapevole di essere inadeguato dinanzi alle dure prove che attendono il nostro Paese, anche in relazione ai confronti che si svolgono a livello europeo. Certo, vi è stato un palese impegno del Presidente della Repubblica ad evitare le elezioni anticipate, che avrebbero prodotto un pericoloso vuoto di potere in una fase non poco convulsa; così pure vi è stata una manifesta indicazione da parte del Presidente della persona di Monti come presidente del Consiglio, evidentemente ritenuto decisamente preferibile, nell’attuale contingenza, per le sue qualità professionali.

Nulla di straordinario, anzi è quasi da manuale la situazione attuale per illustrare il ruolo impegnativo a cui può essere chiamato ad operare un Presidente di una Repubblica parlamentare in situazioni difficili, se non eccezionali: più i partiti politici ed i gruppi parlamentari di maggioranza si dimostrano impotenti dinanzi a grandi ed impellenti situazioni di crisi, più il Presidente della Repubblica deve contribuire ad aiutare il sistema parlamentare a trovare vie d’uscita.

Vie d’uscita condivise e capaci di far superare le difficoltà, anche attingendo - ove occorra - al patrimonio di personalità estranee alle dirette responsabilità parlamentari. Né una scelta del genere potrebbe essere negata in nome del rispetto degli esiti delle ultime elezioni, ormai lontanissimi e contraddetti dal progressivo e pubblico disfacimento del largo schieramento maggioritario allora esistente, nonché dalla dimostrata inadeguatezza del Governo dimissionario ad operare in modo efficace sul piano della crisi finanziaria. Il punto fermo è che l’azione del Presidente della Repubblica deve essere fatta propria dal sistema parlamentare attraverso il conferimento della fiducia al nuovo Governo.

Quindi ciò che è avvenuto non è altro che una (pur impegnativa) applicazione della relativa elasticità della forma di governo quale opportunamente configurata dalla nostra Costituzione: le buone Costituzioni non devono, infatti, prevedere un particolareggiato sistema di rapporti giuridici fra i vari organi rappresentativi sulla base del sistema politico esistente in un dato momento; al contrario, tenendo conto della inevitabile e continua mutabilità dei sistemi politici e partitici, devono permettere di far funzionare al meglio il sistema parlamentare attraverso le tante diverse fasi. D’altra parte, occorre ancora un volta ripetere che non ogni problema che si manifesti nel funzionamento delle nostre istituzioni può essere risolto pensando a ipotetiche riforme costituzionali (che potrebbero essere improvvisate e quindi pericolose, come dovrebbe insegnarci l’esperienza degli ultimi anni), allorché potrebbe largamente bastare un miglior funzionamento del nostro sistema politico.

Occorre quindi anche assolutamente evitare di parlare di Parlamento «commissariato» dal Presidente della Repubblica, se la grande maggioranza dei nostri parlamentari ha liberamente dato la fiducia al nuovo Governo, evidentemente nella speranza che possa riuscire ad eliminare o almeno a ridurre la situazione di grave difficoltà nella quale siamo.

Certo, c’è una evidente anomalia nel fatto che quasi tutti i componenti del Governo Monti si caratterizzino per le loro professionalità e non, invece, per la loro adesione ai movimenti politici che hanno espresso la fiducia. Ma qui pesa evidentemente l’eredità delle forti contrapposizioni che esistevano intorno al precedente Governo ed il conseguente rifiuto di passare ad una compagine governativa in cui potessero lavorare insieme esponenti politici che si erano tanto a lungo duramente contrapposti; quest’ultima scelta non ha certo resa più semplice la prossima vita del nuovo Governo, che dovrà impegnarsi molto per instaurare e mantenere buoni rapporti con i diversi gruppi parlamentari che hanno dato la fiducia, ma che restano non poco estranei alle concrete determinazioni governative. Ma il Governo ha però dalla sua la situazione del rilevante stato di necessità nel quale si opera, che diventerà argomento forte per ridurre le contrapposizioni, più o meno strumentali, fra i gruppi parlamentari ed il Governo.

Semmai l’esistenza di un Governo caratterizzato dalla presenza di tanti tecnici e specialisti e sul quale si fa tanto affidamento, dovrebbe rendere consapevoli i dirigenti dei diversi partiti che nelle loro organizzazioni gli specialisti sembrano invece mancare o contare troppo poco; ma soprattutto questi dirigenti politici dovrebbero essere consapevoli che negli attuali partiti sono rari coloro che sono riconosciuti come capaci di porre al vertice gli interessi generali e che di conseguenza - ove ve ne sia la necessità - sono assolutamente determinati a farli prevalere su tutti gli altri interessi."