martedì 3 marzo 2009

I PAESI DELL’EST-EUROPA CHIEDONO AIUTO A QUELLI DELL’OVEST


East European Countries urge West Europeans for help.Les Européens de l’Est demandent l’aide des Européens du Ouest.Osteuropäer beantragen eine Hilfe von der Seite der Westeuropäer.

Tutti i nodi vengono al pettine.
Il rapporto fra Est ed Ovest dell’Europa, messo in luce con grande lucidità già negli Anni ’30 dal Principe Trubeckoj (il grande linguista russo-bianco fondatore del Circolo di Praga), emerge finalmente in tutta la sua chiarezza.

I Paesi dell’Europa Centrale (dalla Polonia all’Estonia, all’Ucraina, alla Bulgaria) sono storicamente più poveri di quelli dell’Ovest (senza che occorra qui ricercare le ragioni di tale povertà).Da quando è diventato patrimonio comune dell’umanità pensare che tutti i Paesi debbano, innanzitutto, sforzarsi di sollevare il loro sistema economico per raggiungere quello dei “paesi più sviluppati”, i Paesi dell’Europa Centrale hanno fatto di tutto per raggiungere l’Europa Occidentale, imitando, prima, le potenze dell’Asse, poi, l’industrializzazione forzata staliniana, ed, infine, la de-regulation di Reagan e di Bush.

Nonostante ciò, essi non sono riusciti a raggiungere il livello dell’Europa Occidentale, la quale, in un modo o nell’altro, anche nel contesto dell’attuale crisi, se la cava molto meglio, con le sue strutture conservatrici, di Paesi come gli Stati Uniti e la Cina, che hanno puntato tutto su una crescita esasperata dell’economia, nonché dei Paesi dell’ Est, che hanno imitato, mutatis mutandis, ricette americane o cinesi.

Orbene, secondo quali criteri rispondere alle richieste di aiuto degli Europei dell’Est?Come al solito, in base ai gretti criteri del compromesso economico giorno per giorno?Oppure, in base a pregiudizi ancestrali, o a considerazioni ideologiche?

A nostro avviso, il criterio determinante non può essere che politico. La trasformazione delle economie dell’Europa Centrale ed Orientale in senso occidentale è stata voluta, consciamente od inconsciamente, anche dalle élites dell’Europa Occidentale, come parte integrante di un progetto meta-politico di realizzazione di un’Identità Europea.

Questo progetto è stato concepito e realizzato in modo inadeguato a causa dell’insufficiente sviluppo dell’Identità Europea nella stessa Europa Occidentale.In particolare, l’Europa ha abdicato ad un ruolo di dialogo paritetico con l’Europa Centrale ed Orientale, includente tanto le Nomenclature, quanto la dissidenza; ha delegato i ruoli politici ed economici agli Stati Uniti; non ha preteso di inserire, nelle agende politiche dei nuovi Stati, accanto a temi genericamente occidentali, anche quelli specificatamente europei.

Le conseguenze di tutto ciò erano abbastanza prevedibili.
Le Nomenclature post-staliniste, sulla base della loro cultura opportunistica, hanno scelto di identificarsi con un modello americano che, da un lato, era particolarmente consono al loro background materialistico, e, dall’altro, si presentava come vincente.Di conseguenza, queste élites hanno sdegnato i suggerimenti di saggezza da parte dell’Europa Occidentale e si sono buttati a capofitto nella “turbo-economia” di tipo americano (per altro, la più facile da realizzare nella loro situazione storica, in cui il comunismo, con il suo egualitarismo, aveva eliminato tutte le possibilità di compensazione offerte dai ceti intermedi).

A questo punto, era facile prevedere che, dopo un’iniziale ubriacatura grazie al sistema “americano” dell’economia creditizia, questi popoli “déracinés” sarebbero caduti, non appena ci fosse stata una crisi del sistema occidentale, nella più profonda depressione.

A questo punto, che fare?
Rinfacciare agli Europei Orientali la loro ancestrale arretratezza, oppure la loro attuale povertà, oppure, ancora, le sequele nefaste del comunismo e del neo-liberismo?

Ciascuno può avere una sua risposta a queste domande.
Noi, essendo, in primo luogo, europeisti, abbiamo una nostra precisa risposta.
Questa è un’occasione d’oro per sancire una volta per tutte, a dispetto di tutte le ideologie, la solidarietà fra Europei.

È in quest’ottica che, come già anticipato in precedenti post, avviamo, da oggi, una serie di approfondimenti sui Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, volti a dimostrare che, nonostante tutti i luoghi comuni, e nonostante tutte le traversie storiche, gli Est-Europei sono europei a tutti gli effetti.

lunedì 2 marzo 2009

RETTET MEIN PREUSSEN!


The avoided missiles conflict between Russia and NATO highlights the key role of Prussia in today’s Europe. Le conflit (évité) entre Russie et OTAN à propos des fusées souligne l’importance actuelle de la Prussie.Der (vermiedene) Konflikt fuer Missilen klaert Preussens Schluesselrolle im heutigen Europa.

Nello scenario della Nuova Europa, sorta dal crollo del Muro di Berlino, mancano più di uno dei protagonisti tradizionali (dal Regno di Ungheria, alla Rzeczposopolita polacco-rutena-lituana, allo Jiddishland).

Soprattutto, manca quel soggetto che, nel corso degli ultimi tre secoli, si era proposto, inequivocabilmente, quale elemento di equilibrio di un Nuovo Ordine Mondiale, incentrato, per altro, contrariamente a quello presente, non già sull’America, bensì sulla Mitteleuropa:la Prussia.

Tuttavia, come, ma ancor più, che per tutti gli Paesi d’Europa, crediamo che esista un “gap” quasi insormontabile fra la Prussia ed i nostri contemporanei.
La Prussia, parte integrante ed essenziale del mondo baltico, fu il “nocciolo duro” dei “popoli dei Kurgan”, e, quindi, come prima conseguenza, area tradizionalmente refrattaria alla predicazione cristiana.Di ciò fece esperienza innanzitutto il vescovo polacco Adalberto (Svęty Woitech), il quale, parallelamente al suo “collega” ungherese Gellert, fu ucciso, da parte dei Pruzzi pagani, nel corso dei sui tentativi di conversione.

Questo, ed infiniti simili episodi, furono alla base della decisione delle potenze cristiane di por fine all’indipendentismo religioso, culturale e politico dei popoli del Baltico (Slavi, Balti ed Ugrofinnici), convertendoli alla fede cristiana.Promotori della crociata furono, da un lato, i Duchi polacchi indipendenti della Mazovia, Signori di Varsavia, e, dall’altro, il Gran Maestro dell’Ordine Teutonico, Hermann von Salza, braccio destro di Federico Secondo di Svevia.La crociata fu condotta con il concorso di tutte le forze più importanti del Sacro Romano Impero, a partire dall’Imperatore, il quale era, a quel tempo, anche Re di Boemia.

Il nome tradizionale di Kaliningrad, Königsberg, significa “Montagna del Re”, e fu chiamata così in onore del Re di Boemia, da parte delle sue truppe boeme che fondarono la città. Königsberg nacque, dunque, quale fortezza dei Cavalieri Teutonici, con l’appoggio dell’intero Sacro Romano Impero.

I Cavalieri Teutonici, insieme ai commercianti tedeschi dell’Hansa, imposero la loro egemonia culturale, politica ed economica in Prussia ed in Lettonia.
Il popolo baltico e pagano dei Pruzzi fu sottomesso senza difficoltà, ed il suo nome passò, al momento della Riforma, allo stato feudale dei Cavalieri Teutonici, che, avendo abbracciato il Protestantesimo, avevano secolarizzato il loro Stato.Solo nel ‘600, i Pruzzi si ribelleranno e saranno sterminati.La neonata Prussia (sorella gemella del Brandeburgo, di cui il Gran Maestro era Principe Elettore) divenne il modello dello Stato teocratico e guerriero protestante, volto alla conquista di un potere territoriale la cui gloria ridonda a splendore della Riforma.Un esempio tipico di questa etica è espresso dalla tragedia “Il Principe di Homburg”, di Schiller.

La Prussia, inizialmente uno dei territori federati della Repubblica Aristocratica polacca Rzeczpospolita, perviene (parallelamente, per altro, al Regno di Sardegna) al rango di Regno, uscendo, così, dalla tutela (per altro, solamente formale) della Polonia.

In quello stesso contesto, la Prussia diviene anche la roccaforte dell’Illuminismo in Germania, e Federico II, Gran Maestro delle Logge Tedesche, ed autore illuminista, diviene il capo indiscusso delle forze riformatrici in Germania. In Prussia sono emigrati molti nobili ugonotti, che costituiscono il nerbo dell’esercito e dello stato protestante prussiano.

Le guerre di successione sono una palestra in cui il giovane Stato prussiano si cimenta a divenire forza egemone della Germania, conquistando, progressivamente, la Pomerania ed una serie di piccoli Stati feudali nella Germania Nord-Occidentale ed in Franconia.

A Königsberg, capitale per un breve periodo, vive Kant, che dedica al Re di Prussia la sua opera sulla pace perpetua.

Nello stesso tempo, la Prussia Orientale, nella quale era compreso, lungo il fiume Niemen, un piccolo territorio, quello di Klaipeda (Memel, Niemen) chiamato “Piccola Lituania”, diviene lo sponsor della rinascita della nazione lituana.
Con le tre spartizioni della Polonia, la Prussia accresce il suo carattere multinazionale, e, per un certo periodo, comprende persino Varsavia.

Tuttavia, con l’occupazione francese, il Romanticismo e il Nazionalismo, la Prussia viene risucchiata, suo malgrado, nella Germania, divenendone, con il Congresso di Vienna, la maggiore potenza. Nel corso del 19 ° secolo, la centralità prussiana non cessa di accrescersi, anche se l’ enorme Prussia non si dissolve nella Germania che la circonda.

Il 1870 è una data fondamentale: con la creazione del II° Reich, si perviene all’ unificazione della “Piccola Germania” (senza l’ Austria e i Sudeti, appartenenti all’ Austria Ungheria).

La Prussia è lo Stato egemone, da un lato, del II Reich, e, dall’ altra, di un blocco mitteleuropeo, che sfocerà negli “Imperi Centrali”:
La Prussia della Belle Epoque è un Paese contaddittorio ( latifondistico ed industriale, feudale e socialdemocratico, ebraizzato e militarista ), dove, per altro, si sviluppano le più interessanti tendenze culturali del tempo (scienze naturali e musica classica, geopolitica e teoria marxista).

Durante la Repubblica di Weimar, la Prussia resta il più grande Land, ed è una roccaforte della Socialdemocrazia. I manifesti dell’ SPD mostrano Federico II, come campione dei valori illuministici. Il commissariamento della Prussia da parte di Hindenburg, e la sua trasformazione in un ministero sotto Goering cancellano la Prussia come Stato Sovrano. Il tentato attentato contro Hitler può essere considerato come una vendetta della vecchia Prussia illuministica ed aristocratica.

Con la IIa Guerra Mondiale, il territorio della Prussia viene spartito fra Russia, Polonia, DDR e Germania Occidentale. I comandi congiunti alleati decretano lo scioglimento dello Stato Prussiano, a cui addossano, per decreto, la colpa del militarismo tedesco e delle due guerre mondiali.Si tratta di un giudizio palesemente insostenibile. La Prussia fu, di tutta la Germania, la parte più progressista. Il Nazismo partì dall’ Austria e dalla Baviera per conquistare la Prussia.

Questo pregiudizio contro la Prussia permane. I tedeschi del Sud chiamano spregiativamente “Preusse” quelli del Nord. Quando si fece il referendum per la riunificazione della città di Berlino con il Brandeburgo, con il nome di “Prussia”, i cittadini delle due regioni votarono contro.
L’ unica vera, autonoma, Prussia, resta la Regione di Kaliningrad, enclave della Russia fra Polonia e Lituania, con forti presenze industriali tedesche. Qui continua a vivere lo spirito decadente della Belle Epoque e della Repubblica di Weimar.

Il 100 anniversario della città di Kaliningrad (Koenigsberg) è stato festeggiato con grande sfarzo da Putin (la cui moglie è nativa della regione) , con i capi di Stato di Francia e Germania.

Questo era il territorio dove avrebbero dovuto essere posizionati i missili russi se la NATO avesse posizionato i suoi a Praga e Varsavia.

Speriamo che questo periodo sia definitivamente scongiurato.

martedì 17 febbraio 2009

Modello sociale Europeo ed etica degli affari


European Social Model and Business Ethics. Europäisches Sozialmodell und Geschästsethik. Modéle Social Européen et Ethique.

Quando si chiede che cosa ci si aspetti dalla rivisitazione delle regole del sistema finanziario internazionale, richiesta da molti dopo la recente crisi finanziaria, e ribadita, ancora recentemente, dai leaders europei in occasione del “G7”, molti non saprebbero esattamente che cosa rispondere.

In effetti, era scomparsa, dalla cultura pubblica degli ultimi anni, la consapevolezza che, al, seppure deprecato, sistema finanziario senza regole, che sembrava ineluttabile prodotto della globalizzazione, non esistessero, in realtà, concrete alternative, al di fuori di quella, oramai screditata, del “socialismo reale”.
Ma, andando a guardare con più attenzione, in realtà, varie parti del mondo avevano, nel corso della loro storia, ed ancora recentemente, organizzato i loro sistemi socio-economici secondo principi diversi da quelli di un mercato senza freni.

Nel caso dell’Europa, si tratta del cosiddetto “modello europeo”, o “economia sociale di mercato”, fondato su un equilibrio fra finanza, industria, commercio, agricoltura, cultura, servizi, ambiente; sulla concertazione fra le parti sociali; sulla solidarietà sociale.

Non a tutti era, forse, mai stato chiaro che, alle caratteristiche proprie del sistema sociale europeo, era specifico, prima ancora che un principio politico od economico, uno specifico sistema antropologico, più attento alle persone ed alla natura che all’imperativo del fare.

Questo atteggiamento antropologico, pur non identificandosi, di per se stesso, con la pubblica moralità, correva, certamente, meno di altri sistemi, come, per esempio, quello americano, il rischio di spingere singoli o organizzazioni verso comportamenti aberranti anche del punto di vista dell’efficacia per il mercato. Questo, semplicemente perché, nel sistema europeo, il ruolo del successo economico in generale, e di quello individuale in particolare, era più contenuto, ed equilibrato da altri valori e pulsioni.

È, pertanto, significativo che oggi, di fronte al fallimento di quella forma di globalizzazione, si rivalutino, nello stesso momento, da un lato, l’etica degli affari, e, dall’altro, il modello economico europeo.

Se, però, non si vuole che tale rivalutazione abbia un carattere effimero, e possa essere travolta da nuovi eccessi di una globalizzazione senza regole, non è, a nostro avviso, sufficiente, prendere atto con soddisfazione di una relativa capacità di tenuta delle società europee. Occorre anche prendere atto realisticamente delle gravi eccezioni alle regole, come, ad esempio, i gravissimi fatti che hanno coinvolto ancora recentemente il Gruppo Siemens, che per altro è, geograficamente, ma anche culturalmente, al cuore dell’economia sociale di mercato.

Occorre anche andare a ricercare le origini storiche dell’economia sociale e di mercato, dal Medioevo all’Ottocento, riscoprendo gli autori che l’avevano anticipata e teorizzata.

Peter Koslowski, economista e filosofo tedesco, si è dedicato a questi studi, confrontando l’influenza di culture e religioni, studiando la storia delle teorie sociali, dedicandosi a temi apparentemente disparati come l’identità europea, la postmodernità e l’etica delle banche.

La poliedricità, ma anche l’adeguatezza del pensiero di Koslowski per comprendere le problematiche in esame, è stata anche posta autorevolmente in rilievo dal suo connazionale e “collega” Joseph Ratzinger.

Peter Koslowski è a Torino, ospite dell'International Center for Economic Research (ICER), e parlerà, presso Alpina, la sera del 19 febbraio 2009 alle ore 21.00, sul tema American and European Business Concept.

Nonostante il carattere arduo di questa tematica, crediamo che raramente si diano occasioni di comprendere i grandi fatti del nostro tempo quasi in contemporanea e stando così vicini al nucleo centrale delle problematiche culturali e politiche del nostro tempo.

FEDERALISMO MONDIALE E POLITEISMO DEI VALORI

World Federalism and Polytheism of values. Le Fédéralisme mondial et le polythéisme des valeurs. Weltfoederalismus und Polytheismus der Werte

Nel suo intervento nell’ultimo numero di “The Federalist Debate”, Simone Vannuccini discute se il federalismo mondiale sia compatibile con il politeismo dei valori, concludendo la sua analisi in senso positivo, anche se, a nostro avviso, in modo non del tutto esplicito per ciò che concerne il “politeismo dei valori”.

A nostro avviso, il federalismo mondiale si giustifica proprio in relazione all’esigenza di preservare la diversità culturale anche in presenza della globalizzazione.

Infatti, a nostro avviso, da un lato la diversità culturale sarà inevitabile fintantoché gli uomini saranno soggetti liberi e responsabili, e, quindi, saranno capaci di esprimere valori in forma consona alle loro specificità intellettuali, istintive, sentimentali e storiche. Tentare di sopprimere queste diversità culturali per imporre un unico modello di civiltà richiede un livello elevatissimo di repressione, simile a quello teorizzato a suo tempo da Vyšinskij (e praticato da Stalin) come necessario nella fase finale della rivoluzione per impedire il riemergere di tendenze controrivoluzionarie.

Questa è, per altro, la strada attualmente perseguita quando si parla di “esportare la democrazia”, che significa, in pratica, tenere occupati militarmente interi continenti per tentare di modificarne la cultura e le istituzioni, a costo di sopportare una “guerra infinita”. La soluzione federalistica, al contrario di quella dell’“Impero Mondiale” (ed in modo simile per altro alla teoria imperiale classica, per esempio quella di Monsignor De Las Casas), riconosce una pluralità di soggettività culturali, ed anche giuridiche, su basi territoriali, le quali convergono armonicamente nel determinare le sorti del mondo.

Questa situazione è quella attualmente esistente, nella quale i popoli, superate le utopie omologatrici dell’egualitarismo e del mercatismo, sono alla ricerca di una propria identità non spersonalizzante per l’oggi e per domani, pescando, con ciò, profondamente nell’eredità di ieri:che sia l’American Creed o i San Jiao, le Religioni indiche o l’Identità europea, i vari islamismi e i diversi neo-politeismi sudamericani. Ma anche, a livello più modesto, un’identità basca o occitana, padana o kossovara, osseta o kurda, ecc.. Prendere atto di questo, considerarlo un fatto positivo, sostenere che ciò richieda appropriati strumenti giuridici attuativi, è, per altro, solamente l’inizio.

Le difficoltà nella redazione della Costituzione Europea dimostrano che la definizione di ruoli e di poteri ai vari livelli (locale, cittadino, regionale, nazionale, euroregionale, continentale e mondiale) non è affatto un processo scontato. Infatti, fa parte proprio del politeismo dei valori fare sì che non sia immaginabile un Pensiero Unico, un General Intellect, una Dea Ragione, che, in modo obiettivo, stabilisca una volta per tutte ciò che è meglio.

La definizione di ruoli, regole e poteri è sempre il risultato di conflitti, anche aspri.

Neanche il processo del federalismo mondiale ne potrà essere esente.

Attualmente, assistiamo al conflitto fra, da un lato, l’America, che ritiene di impersonare tale ragione astratta e superiore, e gli altri continenti, che non accettano questa identificazione, ed il cui obiettivo sostanziale è, sostanzialmente, circoscrivere e relativizzare il ruolo dell’America. In futuro, potrebbe sorgere un conflitto fra un “duopolio” od un “oligopolio” di poteri ed il resto del mondo.

Lo stesso meccanismo della delega parlamentare non può funzionare, a livello mondiale, nello stesso modo che in uno Stato nazionale e dovrà, alla fine, essere adattato. Infine, le nuove realtà demografiche, economiche e militari del mondo imporranno anche una ridefinizione dei ruoli delle varie culture nel definire i principi di funzionamento degli organismi sovrannazionali, i linguaggi di comunicazione, gli equilibri politici e di rappresentanza.

Scongiurato lo scontro sui missili: una vittoria per l'Europa

A clash about missiles is excluded: a victory for Europe. Une bataille pour les fusées est exclue:une victoire pour l’ Europe. Eine Schlacht für Missilen ist ausgeschlossen: ein Sieg für Europa.

La decisione del nuovo presidente Obama di non proseguire il progetto della difesa antimissile da installarsi a Praga e Varsavia, e la corrispondente decisione del Governo Russo di non installare, a Kaliningrad (Königsberg) i missili Iskander, ha scongiurato un gravissimo pericolo per l’Europa.

Pericolo non solo militare (visto che si riproponeva lo scenario della Guerra Fredda con l’Europa Centrale quale teatro della guerra missilistica), ma anche, e soprattutto, politico e culturale.Infatti, la presenza di due sistemi missilistici contrapposti in un’area molto ristretta e molto centrale nel nostro continente, che ha registrato alcuni dei fenomeni storici e culturali più significativi per lo stesso, avrebbe comportato un clima di permanente tensione ed ostilità fra un gruppo di Paesi della UE (Polonia, Baltici, Cechia), ed il gruppo che fa capo alla Russia (Bielorussia, Armenia, ecc.).

Ciò avrebbe reso vana la speranza, sorta con la caduta del Muro di Berlino, di fare nascere un’unica identità europea.

Occorre, ora, sfruttare questo rinnovato clima di dialogo per recuperare, proprio in quell’area così conflittuale, le tradizioni storiche comuni dell’Europa baltica, della Prussia, della Boemia e della Polonia.

giovedì 12 febbraio 2009

Nuove prospettive per l'industria dell'energia

Obama’s New Policies Open Up New World Perspectives.
Les nouvelles politiques annoncées par le nouveau président Obama permettent d’imaginer des nouvelles perspectives au niveau mondial.

Obama’s neue Politik erlauben uns neue Weltperspektiven auszudenken.

La decisione del presidente Obama di puntare molto, per il rilancio dell’economia americana, sull’energia, e, in particolare, sulle nuove energie, rilancia l’importanza dell’industria dell’energia quale elemento centrale dello sviluppo e dell’innovazione tecnologica. Già negli anni ’60 e ’70, il Governo Americano aveva finanziato enormi programmi di ricerca nel settore delle Centrali elettriche “turbogas”, contribuendo, così, al fatto che le industrie americane produttrici di impianti di questo tipo divenissero egemoni a livello mondiale.
Con gli incentivi statali alla co-generazione, si era contribuito, allora, notevolmente, alla liberalizzazione dei mercati americani, a quell’epoca ancora molto segmentati e regolamentati, nonché alla nascita di colossi dell’industria dell’energia e al project financing dedicato. Ciò aveva permesso, negli anni ’80, l’esportazione del modello americano, comprensivo di incentivi, liberalizzazione, project financing –esportazione che ha portato, negli anni ’90, alla ridefinizione degli scenari dell’industria dell’energia in tutto il mondo-. Sulla base delle esperienze pregresse, questa nuova spinta alla ricerca nel settore energetico, incentrata, soprattutto, sull’idrogeno, non dovrebbe trovare l’Europa impreparata. Essa è, infatti, perfettamente in grado di partire, almeno, in parallelo con l’America, nella nuova spinta alla ricerca ed all’investimento in questo settore. In particolare, l’Europa Mediterranea, con la sua abbondanza di energia solare e con la sua vicinanza al Nordafrica, dovrebbe finire per dimostrare d’essere un’area particolarmente privilegiata per questi nuovi sviluppi.

mercoledì 4 febbraio 2009

Un paese ci vuole...

Cesare Pavese and Piedmont Identity. Cesare Pavese et la identité Européenne. Cesare Pavese und Europäische Identität.

Quando parliamo di “Identità Europea” intendiamo riferirci ad un fenomeno che, all’interno della cultura contemporanea, ha una valenza di carattere generale, le “Identità Collettive”.
L’attenzione, da parte della cultura, per le identità collettive si intreccia con quella per le identità individuali.
In epoca preromantica e romantica, al “Culto dell’Eroe”, cioè dell’individuo dotato di una grande personalità, si accompagnava la “ricerca dell’anima dei popoli”, da scoprire, attraverso la lingua e le tradizioni, sotto le incrostazioni della cultura ufficiale.
Nel XX secolo, alla ricerca dell’identità individuale attraverso la psicanalisi, fa seguito la ricerca delle identità collettive, intese non più, come in epoca romantica e dai nazionalismi, come un qualcosa di dato ed immutabile, tendenzialmente totalitario, bensì come qualcosa di fragile e sfuggente, da “rivalutare” e “sostenere” come l’identità individuale.
Ci si rende conto anche del fatto che le identità sono un fenomeno multiplo, che va dall’individuo all’Umanità, passando per il quartiere, il luogo, gli orientamenti culturali e di genere, le regioni, le denominazioni religiose, le ideologie, le tradizioni etnoculturali…
L’identità di ciascuno di noi, come pure quella delle collettività, è, pertanto, molteplice e mutevole.
Ciascuno di noi appartiene ad una famiglia, ad un quartiere, ad una città, ad una professione, ad una o più comunità linguistiche, ad una o più tendenze culturali e/o religiose, ad una regione, ad un Continente.
Anche le regioni e le città ricercano la loro identità.
Il Centenario della nascita di Pavese ha costituito un’ottima occasione per riavviare il dibattito sull’“identità piemontese”, che non può più essere compresso entro le tematiche risorgimentale, modernistica e tecnica.
La vicenda di Cesare Pavese è semplicemente emblematica di quella di molti intellettuali, piemontesi di nascita o d’adozione, ai quali il paradigma dell’impegno politico e della razionalità tecnico-scientifica risultava stretto, da Alfieri a Salgari, da Ginzburg a Jesi, oppure era, addirittura, inaccettabile, come per De Maistre e Del Noce.
La realtà è che la storia culturale del Piemonte è di un’enorme complessità, in quanto il Piemonte fu sempre un’area di confine, in cui confluivano le tradizioni feudali del Sacro Romano Impero, una Chiesa spesso inquieta e talvolta eretica, l’influenza della vicina Francia, una campagna ed una montagna profondamente radicate in tradizioni ancestrali tipiche di paesi di confine e la grande metropoli scientifica e produttiva con ramificazioni culturali, industriali e finanziarie in tutto il mondo.
In questa fase di profonda trasformazione degli assetti mondiali, che ha un impatto diretto sul tessuto socio-economico del Piemonte, è giunto il momento di fare comprendere, ad Autorità ed opinione pubblica, che questa complessità delle tradizioni della nostra Regione costituisce una grande ricchezza, tanto dal punto di vista della capacità, da parte della stessa, di costruirsi un nuovo futuro, quanto da quello di attrarre l’interesse di persone e soggetti collettivi provenienti da altre parti del mondo.
Avremo, quindi, un Piemonte centro-europeo, che si rispecchia nelle sue minoranze etnolinguistiche e religiose; un Piemonte storico, che non è solamente risorgimentale, ma anche feudale e localistico; un Piemonte contadino e provinciale, che è stato cantato, in forme diverse, da Pavese e Gozzano e che oggi attrae piemontesi e stranieri; un Piemonte modernista e d’avanguardia, ancora proteso verso gli scambi a livello mondiale; e, infine, un Piemonte cosmopolita, che ha ospitato, e continua ad ospitare, intellettuali, imprenditori, tecnici e lavoratori di ogni parte del mondo.
Non crediamo che questa identità piemontese sia in contrasto né con l’identità europea, di cui tutti facciamo parte, né delle diverse identità locali della nostra Regione, impregnate, quale più dell’una, quale più dell’altra, di queste tante eredità.