domenica 29 novembre 2009

DIFFICOLTA' DELLA RICERCA IN PIEMONTE


Different Reasons Render it Difficult to Deepen Research in Piedmont. Différentes raisons rendent difficile de développer la recherche au Piémont. Unterschiedliche Ursachen machen es schwierig, Forschung in Piemont zu entwickeln

Costituisce un elemento tradizionale di recriminazione generalizzata il fatto che “in Italia si fa troppa poca ricerca”. Quest’affermazione, di per sé fin troppo vera, addirittura ovvia, suona, per altro, incredibilmente banale, improduttiva e, perfino, offensiva, quando si pensa che i moltissimi che la formulano, da un lato, si guardano bene dal definire che cosa essi intendano per “ricerca”, e, dall’altro, si guardino anche bene dall’indicare, e le ragioni di questa carenza della ricerca in Italia, e le possibili vie per uscire da questo “impasse”.
Una, oramai vecchia, impostazione, in base a cui tutte le tipologie di attività culturale vengono omologate, sulla falsariga delle scienze naturali, ha portato all’assimilazione della ricerca in ambito letterario e filosofico a quella in campo tecnico-scientifico, nonostante che questi due diversi tipi di ricerca abbiano caratteri assolutamente diversi. In questa sede, tratteremo, per altro, solamente della ricerca tecnico-scientifica, mentre le problematiche della ricerca nell’ambito delle scienze umane saranno trattate, soprattutto, nel settore “Cultura”, salvo qualche accenno alla fine di questo intervento.
La ricerca tecnico-scientifica comporta costi aggiuntivi che vanno al di là del mantenimento dei ricercatori; essa, perciò, costituisce un investimento, e quest’ultimo deve essere, in qualche modo, redditizio. Inoltre, le logiche del processo della ricerca tecnico-scientifica fanno sì che essa si evolva lungo una sequenza estremamente lunga: ricerca pura, ricerca applicata, ricerca pre-competitiva, ingegnerizzazione, post-certification engineering.
L’industria produttiva è interessata solamente al risultato finale del processo, e, normalmente, non può, e/o non vuole, permettersi di sostenere i costi delle fasi precedenti. Per evitare questi costi, essa è spesso disposta (ciò soprattutto in Italia) a produrre prodotti tecnologicamente più arretrati, o anche a correre il rischio di essere perseguita per contraffazione, per avere imitato illecitamente prodotti altrui. Questo atteggiamento ha caratterizzato la quasi totalità delle imprese italiane. Occorre subito dire che esso ha provocato, nel tempo, praticamente la scomparsa di tutte le grandi imprese produttive con, forse, appena una decina di eccezioni. Esso costituisce, dunque, un problema essenziale per la nostra economia.
A seconda della specifica posizione di mercato, “leader, e/o meno”, e/o della forza finanziaria, dei diversi tipi di impresa, si hanno, in questo campo, comportamenti di tipo diverso, come, per esempio: acquisto di licenze passive, partnerships, ecc..
Non esiste, tuttavia, in ultima analisi, praticamente nessuna impresa, nel mondo, che paghi tutti i costi della ricerca pura che le sarebbe necessaria per pervenire alle proprie produzioni commerciali. Normalmente, infatti, i costi della ricerca pura sono sostenuti dal settore pubblico, e, ciò, tanto più in quanto tale tipo di ricerca costituisce, in generale, un vantaggio competitivo importante per il Paese. Inoltre, le conoscenze scientifiche di base hanno, oramai, sempre più un inestimabile valore militare, in quanto sostengono la supremazia bellica del Paese che li possiede. L’esempio tipico di questo genere di politica è costituito dagli Stati Uniti, dove lo studio di nuovi principi scientifici, suscettibili anche parzialmente di utilizzazioni militari (“dual use”), viene avviato in basi segrete del sistema militare, completato da Enti pubblici, come l’ARPA o la NASA, licenziato sotto vincolo di segreto alle multinazionali americane, le quali, a loro volta, sono tenute ad imporre, ai loro partners esteri, i più pesanti vincoli di riservatezza a favore del Governo.
In queste condizioni, è ovvio che il primo motivo della mancanza di ricerca in Italia è costituito dal fatto che, non essendo l’Italia una grande potenza, essa non ha neppure l’ambizione di finanziare con fondi pubblici scoperte particolarmente innovative (che, per altro, non potrebbe utilizzare privatamente, in quanto la prima utilizzazione è praticamente sempre militare). Questo è uno dei motivi per cui le imprese italiane, a loro volta, non sostenute dallo Stato italiano, e di livello molto meno avanzato, preferiscono utilizzare le scoperte in base a licenze dall’America o da qualche altro paese, o entrare in “partnership” con imprese di quei Paesi in posizione subordinata. Certamente, esistono eccezioni. Tuttavia, ciò che viene chiamato “ricerca” in Italia è molto spesso pura ingegnerizzazione, se non, ancor peggio, “post-certification engineering” (che, teoricamente, non avrebbe neanche diritto, secondo le normative internazionali europee e nazionali, ad alcun supporto pubblico).
Le vicende delle politiche adottate per una “società della conoscenza”, secondo la retorica politica propria delle amministrazioni locali degli anni passati, dimostra “ad abundantiam”, questa debolezza del sistema paese.
Le Amministrazioni Locali hanno speso cifre estremamente ingenti per incentivare società multinazionali (come General Motors e Motorola), se scegliere Torino come sede dei loro centri di ricerca. Tuttavia, non appena la crisi ha sconvolto gli equilibri finanziari mondiali, le società multinazionali hanno chiuso i loro centri di ricerca, senza, né restituire alla Regione ed alla Città i fondi ricevuti, né lasciare alle stesse la proprietà intellettuale delle ricerche svolte. Si conferma, pertanto, il fatto che la tecnologia strategica non viene concessa dalle multinazionali a terzi, neppure quando sono questi a pagare. Ultimo esempio, il recente caso di mancato accordo Magna-GM.
Riteniamo che le Amministrazioni Locali, così come gli Stati, debbano fare tesoro delle esperienze così acquisite, ed imporre, per il futuro, alle imprese investitrici, precise condizioni, tanto per ciò che concerne la proprietà dei risultati della ricerca, quanto per ciò che concerne la restituzione dei fondi nel caso di non completamento dei programmi. Non sarebbe neanche illogico privilegiare le imprese radicate nel territorio, relativamente alle quali è ovvio che possano accettare più facilmente (anche se neanche questo non è, oramai, più garantito) di mantenere sullo stesso territorio la titolarità e l’utilizzo della proprietà intellettuale.
Su di un piano più generale, è chiaro che la ricerca tecnico-scientifica va calibrata in relazione alle specificità di un Paese, e/o di una regione, e/o delle imprese coinvolte.
Una Regione, come il Piemonte, situata in una parte avanzata dell’Europa, potrebbe rivendicare un ruolo di maggior peso, tanto per ciò che riguarda la ricerca e la ricerca applicata finanziata dal settore pubblico, quanto per ciò che riguarda le condizioni ambientali in cui deve avere luogo tale ricerca da parte dei privati. Per quanto riguarda il primo ambito, sarebbe opportuno che gli Enti pubblici locali elaborassero più precisi criteri circa il ritorno economico ed occupazionale della ricerca finanziata. Quanto al secondo ambito (pensiamo alla ricerca svolta, a livello internazionale, da grandi aziende come Fiat, Finmeccanica o Avio), le Autorità Locali dovrebbero proporsi in funzione sinergica per favorire la partecipazione delle imprese locali ai grandi progetti di ricerca internazionali (per esempio, Chrysler, ESA, ecc. - cfr. Progetto: Pubblicazione su Industria Aerospaziale in Piemonte) (ovviamente sempre imponendo precise condizioni di mantenimento dei centri finanziari, direzionali e tecnologici).
Infine, si dovrebbero sfruttare più razionalmente le opportunità di finanziamento delle collaborazioni fra i Parchi Tecnologici dell’ Europregione.


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